Il trasporto containerizzato via mare aveva a malapena accarezzato l’idea di una stabilizzazione dopo mesi di rotte alternative attorno al continente africano per collegare Asia ed Europa, che tutto torna in discussione.
L’attacco sferrato da Israele all’Iran, per decapitarne il programma nucleare dopo l’allarme dell’AIEA sulle reali quantità di uranio arricchito processate da Teheran, che ne renderebbero realistica la prospettiva d’impiego per scopi bellici e non soltanto civili, come da accordi, ha infatti riattivato la milizia Houthi – per la verità, mai veramente sopita – e, soprattutto, ha aperto la possibilità che ad essere strangolato sia lo Stretto di Hormuz, fondamentale per gli idrocarburi.
Hormuz, spada di Damocle per il petrolio
Il braccio di mare, una sorta di chicane tra la punta di terra che si protende dall’Oman e le coste dell’Iran, è una strettoia obbligata (33 metri nel punto meno largo) per le petroliere che esportano greggio dall’Iran stesso, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar: delle circa 3mila navi che mensilmente vi transitano poco meno di due terzi trasportano oro nero, esportando tra il 20% e il 30% dell’offerta mondiale – l’Arabia Saudita produce 9 milioni di barili di petrolio, gli UAE oltre 4 milioni, l’Iran 3,3 milioni e il Qatar 600mila.
Non scherza nemmeno il Gnl, che, attraverso Hormuz, raggiunge Cina ed Europa rappresentando un buon 20% dell’offerta globale.
Lo stretto è, dunque, un’arma carica in mano agli Ayatollah, sebbene la sua chiusura rappresenti una mossa suicida per la Repubblica islamica; una destabilizzazione dell’area condiziona però anche il trasporto container, allontanandolo dal ritorno nel canale di Suez e consolidando gli investimenti su rotte (e mercati) alternativi.
Le conseguenze di un blocco
Sospendere i transiti di petroliere lungo le due corsie dello stretto che mette in comunicazione Golfo Persico e Oceano Indiano comprometterebbe la filiera mondiale del greggio e potrebbe essere presa in considerazione come mossa ‘della disperazione’ da parte di Teheran: attivare un fattore di stress aggiuntivo sulle economie occidentali, già fiaccate dall’astinenza (almeno teorica) dal petrolio russo, dall’inflazione mai rientrata entro i livelli pre-2022, dai rincari applicati dallo Shipping per via della pericolosità del Mar Rosso e dalla guerra commerciale di Trump, potrebbe essere un’extrema ratio per l’Iran.
‘Extrema’ in quanto da Hormuz esce anche il greggio prodotto in casa, fonte vitale per l’economia di Teheran e perché, sempre da lì, devono passare i mercantili che all’Iran portano anche altri beni: proprio a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e delle sanzioni nei confronti di Mosca, i rapporti commerciali tra Federazione Russa e Iran si sono rafforzati.
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È però anche vero che nello scorso anno sono stati aperti dei canali di approvvigionamento diversi, come dimostra l’accordo a lungo termine tra l’autorità portuale di Chabahar, sulla costa iraniana che si affaccia sull’imboccatura del golfo dell’Oman, dunque prima dello stretto, quasi al confine con il Pakistan, e India Ports Global Ltd (IPGL) per la gestione e lo sviluppo dell’infrastruttura.
Si tratta di un revival della joint venture Irano-Hind Shipping Co. per favorire gli scambi tra le due nazioni, aggirando blocchi e sanzioni internazionali: per l’India, Chabahar è una porta sull’Iran, ma anche verso il vicino Afghanistan, che tramite il Tajikistan le consente di aggirare il nemico Pakistan per raggiungere la Cina via terra.
Il costo del greggio e i trasporti
La reazione immediata dei mercati agli attacchi israeliani sull’Iran è stata la proiezione dei possibili scenari, dal più blando, che vede il prezzo al barile del petrolio veleggiare su livelli che, dopo la guerra tra Russia e Ucraina, non producono più inflazione (intorno ai 100 dollari al barile) non essendo di fatto mai scesa al di sotto di certi limiti, al più pessimista, che vede appunto la chiusura dello Stretto di Hormuz.
In tal caso, si parla di un prezzo del greggio che potrebbe toccare i 120-130 dollari al barile, facendo innalzare di conseguenza il costo dei carburanti e dei trasporti in genere.
Va però tenuto conto di due fattori, vale a dire la minor importanza degli idrocarburi nella trazione a livello globale (basti pensare che sul primo mercato per l’export iraniano di greggio, la Cina, il 50% delle auto vendute è ormai solamente elettrico), aspetto importante per l’impatto inflazionistico, e che, allo stato attuale, la chiusura dei transiti non converrebbe nemmeno ai partner strategici dell’Iran.
Inoltre, la politica recente dell’Opec non è più orientata a governare il mercato del greggio con la scarsità, bensì, al contrario, con i serbatoi pieni. È però chiaro che il petrolio non è considerabile un bene rifugio, fattore che sta influenzando al rialzo il valore dell’oro.
Shipping e trasporto aereo non stanno a guardare
Una conseguenza di una destabilizzazione ulteriore dell’area mediorientale potrebbe essere un definitivo ‘colpo di grazia’ inferto al Mar Rosso, che lo Shipping continuava già ad evitare malgrado i proclami di ‘riapertura’ di Suez e dello stretto di Bab-el-Mandeb.
Le compagnie di navigazione non si fidano e nell’ultimo anno sono stati avviati molteplici programmi di investimento su hub portuali in Africa, le cui rotte da Capo di Buona Speranza sono divenute, di fatto, lo standard per raggiungere il Mediterraneo.
Per esempio, MSC, da aprile, fa transitare alcune delle sue mega-navi da 24mila TEU sulla costa atlantica del continente africano, facendo scalo in Ghana, Togo, Costa d’Avorio e Camerun, il che sta simbolicamente a rappresentare una strutturazione sempre più seria dei traffici sulle rotte africane. Per quanto, sia chiaro, ciò comporti anche una stabilizzazione delle tariffe su regimi più alti, vuoi per i maggiori costi dovuti a maggior tempo in acqua, vuoi per i rischi assicurativi legati alla pirateria.
Direttamente legato ai bombardamenti tra Iraniani e Israeliani è, invece, il dirottamento del traffico aereo dai cieli della regione a quelli afghani: si tratta di uno spazio aereo che, se dovesse permanere come collegamento tra Europa e Asia, comporta rischi maggiorati per l’assenza di controllori di volo e per la minaccia latente di essere colpiti da missili terra-aria, per via di instabilità locali.