L’Associazione per la Logistica sostenibile celebra i suoi primi 20 anni di attività spesi per portare il tema della sostenibilità al centro del dibattito logistico e delle strategie delle imprese. Daniele Testi: “Non è un traguardo, ma una tappa di un cammino che continua”
Vent’anni fa, quando il termine sostenibilità era una parola che non è un azzardo definire “esotica” nel settore della logistica (e non solo), un gruppo di professionisti decideva di fondare SOS Logistica. Due decenni dopo, l’associazione ha riunito istituzioni, accademici e aziende per fare il punto su un percorso che, come ammette con franchezza il presidente Daniele Testi, è tutt’altro che concluso.
“Non siamo nati come ambientalisti, ma come professionisti convinti che fosse necessario dare spazio e visibilità alla logistica e alla sua possibile trasformazione in chiave sostenibile”, ha sottolineato Testi durante l’apertura dei lavori. L’obiettivo era – e resta – quello di “costruire supply chain capaci di integrare efficienza economica, compatibilità ambientali e responsabilità sociali”.
Un sfida ancora aperta
Ma a che punto siamo oggi? Testi non usa giri di parole: “Se i processi di trasporto e logistica fossero collaborativi e a basso impatto ambientale e sociale, se il settore fosse in grado di attrarre innovazione e talenti e se consumatori e committenti riconoscessero con le loro scelte il valore dei processi logistici, SOS Logistica avrebbe poco senso. Penso che però sia evidente il fatto che non siamo ancora a questo punto”.
Un’analisi temperata però da un messaggio pragmatico che il presidente ripete come un mantra: “Spesso la soluzione più sostenibile è la più conveniente: fare bene conviene sempre, soprattutto nel medio e lungo periodo”. La ricetta contro il greenwashing? “Essere credibili, mettendo al centro la cultura della sostenibilità, che non deve essere un punto di arrivo, ma una direzione di marcia”.
Venti anni di evoluzione
A testimoniare la strada percorsa in questi anni è stato Fabio Capocaccia, uno dei fondatori dell’Associazione con Giulio Aguiari, Franco Cornagliotto, Renzo Prevedel, Fabio Capocaccia, Giovanni Leonida e Giuseppe Ricca.
“L’attuale presidenza ha preso in mano l’associazione dieci anni fa e l’ha trasformata, contribuendo ad aumentare la consapevolezza globale su un concetto che nel 2005 era pressoché sconosciuto: in questa seconda fase, si è passati dalla teoria alla pratica, grazie ad un sempre maggiore coinvolgimento delle imprese”.
E proprio alle imprese e ai giovani che le animeranno si è rivolta Elena Eva Maria Grandi, assessora all?Ambiente e Verde del Comune di Milano, sottolineando quanto “la logistica sia una vera e propria porta verso il futuro” evidenziando il ruolo strategico e trasformativo del settore nel sistema economico nazionale.
Il peso invisibile delle scelte
A scavare più a fondo nelle implicazioni filosofiche e sociali della sostenibilità ci ha pensato Francesca Pongiglione, professoressa associata in filosofia sociale all’Università Vita-Salute San Raffaele.
“Se prima, fino alla prima metà del secolo scorso, le conseguenze delle azioni di ciascuno erano note esclusivamente nel proprio contesto di riferimento, senza alcuna visibilità sugli effetti a lungo raggio, ora è tutto diverso”, ha spiegato. “Oggi è molto chiaro che le nostre azioni possono avere effetti a livello globale – lontano nello spazio, per esempio influendo sulle condizioni di lavoro nelle aziende dall’altra parte del mondo, o lontano nel tempo, sulle generazioni future – e questo rende necessaria una riflessione sulle scelte valoriali, individuali e di impresa.”
La sostenibilità, ha aggiunto Pongiglione, deve abbracciare anche l’inclusività, “intesa come capacità di dare alle persone il medesimo valore”. Ma al cambio di approccio c’è un ostacolo potente: “Cambiare fa paura perché si esce dall’assetto conosciuto per avventurarsi in qualcosa di ignoto: ma non bisogna dimenticare che i costi iniziali di una transizione sono spesso maggiori di quelli necessari a continuare il processo evolutivo”.
Quando il cambiamento parte dall’interno
La tavola rotonda che seguito i primi interventi ha dato voce anche a chi la trasformazione sostenibile la sta vivendo quotidianamente nelle aziende. E le testimonianze hanno rivelato come, spesso, il vero cambiamento non riguardi tanto i processi quanto le persone che li guidano.

Costanza Musso di Grendi, società che di recente ha ottenuto la certificazione B Corp, ha portato una riflessione generazionale molto personale: “Quando sono entrata in azienda, espressione di un modello che metteva il profitto al primo posto, ero una ragazza che, come tutta la mia generazione, pensava di cambiare il mondo. In 30 anni la cosa che più mi commuove è che non sono cambiata io ma è cambiata l’azienda: ora, infatti, la parte valoriale è fondamentale”. Ma è sulla responsabilità collettiva che il suo messaggio si è fatto netto: “Il saving non va cercato sulle persone, perché lì è la vera fonte del valore”.
Un concetto ripreso e ampliato da Camilla Buttà, Chief Sustainability Officer di Vector, che ha sottolineato la necessità di un approccio concreto: “Ci siamo dotati di un codice scritto, ma la vera sfida è il passaggio dallo scritto all’agito”. Il punto cruciale, secondo Buttà, è riconoscere che “il cambiamento è lento e si deve confrontare con il fatto che l’attenzione ai valori della sostenibilità e dell’inclusione rappresentino l’ultima fase dello sviluppo economico, in un contesto popolato di aziende che si devono confrontare e competere con realtà eterogenee che hanno, anche legittimamente, altre priorità”.
Giovanna Gregori, Executive Director di AIDAF, ha portato la prospettiva delle imprese familiari, un tessuto fondamentale dell’economia italiana spesso sottovalutato quando si parla di innovazione sostenibile. “AIDAF raccoglie circa 350 aziende familiari unite da un framework valoriale comune e condiviso. L’obiettivo primario è quello di essere un buon antenato”. Una definizione che racchiude una visione di lungo periodo tipica di chi pensa in termini generazionali.
Che mondo sarà
Uno sguardo al futuro, e a tutta la complessità che ci aspetta, è stato disegnato dalla lectio magistralis sulla rivoluzione geopolitica attualmente in corso scatenata dalla crisi americana, a cura di Lucio Caracciolo e dal suo dialogo con Filippo Bettini, presidente di UNGC Network Italia, Carlo Luzzatto, AD di RINA e Gabriele Ciofi, dirigente MIT.

Un cambio di paradigma che ha conseguenze dirette e misurabili proprio nel cuore pulsante del commercio mondiale: gli stretti marittimi. “L’impero americano, anche da un punto di vista logistico, era basato sul controllo delle grandi rotte commerciali via mare. E questo controllo si esercita non nell’anarchia degli oceani, ma in particolare negli stretti: “colli di bottiglia” che sono un buon termometro di quale sia oggi il regime mondiale”.
Ed è proprio osservando questi passaggi obbligati – Panama, Gibilterra, Canale di Suez, Bab el-Mandeb, Hormuz, Malacca, Taiwan e altri ancora – che si misura la portata del cambiamento: “La situazione in questi stretti è cambiata, sta cambiando, è in evoluzione ed è diventata in alcuni casi anche piuttosto critica”.
Una criticità che non riguarda solo la geopolitica, ma si traduce direttamente in costi, tempi e rischi per l’intera supply chain globale. Il punto, secondo Caracciolo, è prendere atto della nuova realtà: “L’America ha ridimensionato se stessa.” Per il mondo della logistica questo significa abbandonare l’illusione di un ordine globale garantito e concentrarsi su ciò che è più vicino e controllabile.
Un invito pragmatico a fare i conti con un sistema che, dopo decenni di relativa prevedibilità, è entrato in una fase di turbolenza strutturale. Ma come è possibile, quindi, prosperare in un contesto ostile? Una risposta è arrivata da Chiara Montanari, ingegnere e prima donna italiana ad aver guidato una spedizione internazionale in Antartide: “un ambiente estremo ci propone sfide e ribaltamenti di prospettive continui: l’unico modo per affrontarli è lavorare su se stessi, cambiare mindset per trasformare l’incertezza in possibilità”.



