Che cosa sono i choke points citati dal ministro della difesa Crosetto in un suo recente intervento sulla necessità per l’Italia di rafforzare la propria sicurezza nazionale è una domanda interessante, specie per i non addetti ai lavori.
I choke points, o “colli di bottiglia”, sono passaggi marittimi obbligati, spesso corrispondenti a luoghi geograficamente e fisicamente stretti e congestionati, attraverso cui transita una quota rilevante del commercio mondiale. Così si trovano da più parti efficacemente definiti, ad esempio sul sito dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale: si tratta di veri e propri snodi strategici che, per la loro posizione geografica, concentrano flussi di merci, energia e materie prime.
Si tratta di un qualcosa che suona immediatamente familiare e diventato di pubblico dominio a partire dal 2020 in avanti ed è immediata la comprensione del fatto che il loro controllo o la loro eventuale interruzione può avere effetti devastanti sulle supply chain globali, causando ritardi, rialzi dei prezzi e instabilità economica.
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Partiamo dal presupposto che oltre il 90% del commercio mondiale avviene via mare, il che rende subito chiaro quanto gli choke points rappresentano i nodi critici della rete che distribuisce le merci in giro per il pianeta: se uno di essi viene bloccato da eventi naturali, attacchi armati o tensioni geopolitiche, l’intero sistema logistico globale può subire gravi conseguenze.
A suo tempo, bastò l’incagliamento durato pochi giorni di una portacontainer (la Evergiven) nel Canale di Suez per far paralizzare le supply chain di mezzo mondo e congestionare per settimane i porti di mezzo Mediterraneo, con ripercussioni persino sui successivi imbarchi di merci in Asia per via del ‘sequestro’ dei container. Nulla in confronto al blocco operato a monte, nel Mar Rosso, da parte delle milizie Houthi per un paio di anni.
Le navi, in questi casi, devono deviare su rotte più lunghe e costose, con impatti diretti su tempi di consegna, costi di trasporto e disponibilità di beni essenziali, in particolare energetici.
Se si pensa che, allo stesso tempo, si è reso inagibile per scarsità di piogge e, quindi, limitato nel pescaggio delle navi, il Canale di Panama, si inizia a delineare uno dei tanti perché dello sconvolgimento delle catene di approvvigionamento globali nell’ultimo lustro.
Quali sono i principali choke points del mondo?
Volendo identificare sul planisfero i più rilevanti punti nevralgici della distribuzione logistica nel mondo, troviamo:
- lo Stretto di Malacca, che collega l’Oceano Indiano al Pacifico. È il più trafficato al mondo, con il transito del 30% del commercio globale e dell’80% delle importazioni cinesi.
- lo Stretto di Hormuz, sito tra Oman e Iran, è il secondo per transito di idrocarburi (oltre 20 milioni di barili al giornodi petrolio iraniano, dell’Oman e del Qatar).
- il Canale di Suez, snodo vitale tra Europa e Asia, attraversato da circa il 12% del commercio globale.
- lo Stretto di Bab el-Mandeb, che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden, cruciale per le rotte verso il Mediterraneo e, non a caso, preso di mira dagli Houthi.
- il Canale di Panama, che collega Atlantico e Pacifico, famosissimo per i suoi legami con Washington sin dalla costruzione, fondamentale per il commercio tra Americhe e Asia tanto da essere stato recentissimo oggetto di contesa tra società controllate indirettamente da Pechino e fondi di investimento statunitensi.
- gli stretti Turchi e Danesi, fondamentali per i flussi energetici tra Russia, Europa e Asia.
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I choke points che interessano l’Italia
L’Italia, per la sua posizione centrale nel Mediterraneo, è direttamente esposta agli effetti di qualsiasi azione che interagisca con il funzionamento di diversi choke points. Per fare un quadro, si può partire dal vicino Canale di Suez, che rappresenta la principale via di accesso per il GNL e il petrolio provenienti dal Medio Oriente. Tanto per dire, nel 2023 il 41% del GNL importato dall’Italia proveniva dal Qatar, transitando proprio da Suez.
A monte di Suez si trova Bab el-Mandeb, il vero punto di strozzatura dei traffici diretti verso il Mediterraneo passando da Suez; ne è stata dimostrazione il fatto che gli attacchi Houthi iniziati nel 2023 e proseguiti per tutto il 2024 e parte del 2025 si siano concentrati sullo stretto e abbiano rendendo asfittico il traffico di navi porta-GNL diretto nel canale egiziano, con conseguenze immediate sulle forniture energetiche europee.
Risalendo sino al Golfo Persico, si trova lo Stretto di Hormuz, il quale, sebbene indirettamente, gioca un ruolo molto importante per l’origine del petrolio e del gas destinati all’Italia.
In conseguenza all’instabilità del Mar Rosso, è entrato negli interessi strategici di Roma anche il Capo di Buona Speranza, ossia la rotta alternativa in caso di blocco di Suez, che però comporta aumenti nei tempi di navigazione (circa 23 giorni in più) e nei costi. Questi ultimi sono gonfiati anche dai costi assicurativi maggiorati per via della pericolosità delle rotte che circumnavigano l’Africa: prima che si rendesse necessario aggirare il Mar Rosso, i mari africani erano tendenzialmente evitati anche per la forte presenza di pirati, oltre che per l’esposizione a tratti di mare interessati da fenomeni atmosferici violenti.
Infine, anche gli stretti Turchi ci riguardano da vicino, poiché coinvolti nei flussi di greggio e GNL dal Mar Nero e, dunque, in grado di influenzare la sicurezza energetica europea.
Perché preoccupano l’Italia
Il principale motivo di preoccupazione per Roma è quello dell’approvvigionamento energetico: la dipendenza italiana in questo campo da fornitori esterni rende il Paese vulnerabile a ogni interruzione nei flussi marittimi.
I chokepoints non sono solo passaggi geografici, ma veri e propri barometri della stabilità geopolitica. Ogni crisi – dal conflitto russo-ucraino alle tensioni in Medio Oriente – si riflette immediatamente sui costi dell’energia, sulla logistica e sull’economia nazionale.
Per questo, la resilienza delle supply chain e la diversificazione delle rotte e delle fonti energetiche sono oggi priorità strategiche per l’Italia; a dare ancora più sostanza a questa constatazione è un’altra osservazione, derivante dallo scenario che l’asfissia di Suez ha fatto emergere nei due anni passati: la strozzatura dello choke point egiziano ha provocato un anemia sistemica a molti scali mediterranei.
Quelli del sud del Mediterraneo direttamente a causa del minor flusso di transiti (il greco Pireo ne è un esempio, ma diversi scali del Sud Italia non se la sono passata molto meglio), quelli del nord perchè tagliati fuori anche dalle rotte alternative, a quel punto dirette verso gli scali merci del nord Europa senza ricorrere al trasbordo intermodale su rotaia.
Minori volumi lungo i corridoi merci che tagliano da Genova verso Francia, Svizzera e Germania per poi proseguire ancora più a nord vogliono dire anche meno indotto nelle regioni non costiere, nonché il sottoutilizzo e il mancato ammortamento di opere infrastrutturali enormi.
In pratica, vuol dire tagliare fuori l’Italia dal commercio che conta, non solo in termini di acquisto, ma anche diexport e di capacità delle aziende dello Stivale di approvvigionarsi competitivamente, senza essere le ultime di una catena che dal Mare del Nord scende sino alla penisola.
Ecco perché all’Italia dovrebbe interessare proteggersi dalla dipendenza estrema da determinati choke points.



