A fine estate è giunta la sentenza che mette in discussione la politica protezionistica di Trump: il 30 agosto 2025, la Corte d’Appello federale degli Stati Uniti si è pronunciata, con una maggioranza di 7 voti contro 4, dichiarando illegittimi i dazi imposti dal Presidente degli Stati Uniti con una raffica di ordini esecutivi.
La decisione conferma una precedente pronuncia della Court of International Trade (CIT) del maggio 2025, che aveva già bloccato parte delle misure tariffarie: secondo i giudici, Trump ha oltrepassato i limiti costituzionali della sua carica, esercitando poteri che spettano esclusivamente al Congresso.
Quali scenari si delineerebbero nel caso in cui la sentenza diventasse esecutiva e gli Stati Uniti dovessero risarcire i soldi incamerati con le famigerate ‘tariffe’?
Leggi anche:
Dazi, accordo USA-UE, equilibrio cercasi per le PMI
Le basi normative: IEEPA, Trade Act e Costituzione USA
Il fulcro del contenzioso giuridico è l’uso dell’International Emergency Economic Powers Act (o IEEPA), legge federale del 1977 che consente al presidente di adottare misure economiche straordinarie in caso di minacce alla sicurezza nazionale.
Trump ha invocato l’IEEPA per giustificare dazi contro Canada, Messico e Cina, additando a minaccia per la nazione americana il traffico di droga e di esseri umani.
Tuttavia, la Corte d’Appello federale ha stabilito che l’IEEPA autorizza il presidente a “regolare” o “interrompere” temporaneamente le importazioni, ma non a introdurre dazi permanenti. L’imposizione di tariffe doganali è infatti prerogativa del Congresso, come previsto dall’Articolo I, Sezione 8 della Costituzione degli Stati Uniti, che attribuisce al Parlamento federale il potere esclusivo di “regolare il commercio con le nazioni straniere”.
I dazi contestati e quelli esclusi
La sentenza non riguarda tutti i dazi indiscriminatamente, ma si concentra su due principali pacchetti tariffari, il Trafficking Tariffs e il Reciprocal Tariffs.
Il Trafficking Tariffs comprende i dazi del 25% imposti ai prodotti provenienti da Messico e Canada, e quelli tra il tra il 10% e il 20% sui beni cinesi, entrambi motivati da ragioni di sicurezza nazionale e salute pubblica.
Il Reciprocal Tariffs è invece il pacchetto che prevede dazi del 10% su quasi tutte le importazioni globali, con picchi fino al 50% per singoli Paesi e, nella sua versione originale, cuspidi del 125% nei confronti della Cina (poi ritrattati); in questo caso, la giustificazione è la mancanza di reciprocità commerciale.
Non sono invece toccati dalla sentenza i dazi applicati a settori come acciaio, alluminio, auto, semiconduttori e farmaceutica, poiché giustificati dalla sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, che consente misure tariffarie in caso di minaccia alla sicurezza nazionale.
Effetti e reazioni alla sentenza
La Corte d’Appello ha sospeso gli effetti della propria decisione fino al 14 ottobre 2025, per consentire all’Amministrazione Trump di presentare ricorso alla Corte Suprema, presso la quale l’ex presidente può vantare una composizione favorevole, in quanto sei giudici su nove sono stati nominati da presidenti repubblicani (tre su sei da lui stesso).
Tuttavia, l’esito non è scontato: la Corte Suprema ha già dimostrato in passato di non seguire sempre le linee ‘di partito’ sui temi costituzionali.
Nel caso di un’ulteriore sconfitta, Trump potrebbe ricorrere a strumenti alternativi, come la Sezione 122 del Trade Act del 1974, che autorizza l’introduzione di dazi globali fino al 15% per un massimo di 150 giorni, in caso di emergenza, e la Sezione 301 e 321 del Trade Act, che prevedono misure contro pratiche commerciali sleali, ma che richiedono indagini complesse e risulterebbero, dunque, non immediatamente applicabili.
Chi ha contestato i dazi e perché
Il ricorso nei confronti dei dazi voluti dall’Amministrazione statunitense è stato presentato da un fronte composito: al suo interno si trovano piccole imprese statunitensi danneggiate economicamente, tra cui importatori di biciclette, componenti elettronici e vini italiani (come nel caso di Victor Schwartz, imprenditore assurto agli onori della cronaca), ma anche dodici Stati americani – Arizona, Colorado, Connecticut, Delaware, Illinois, Maine, Minnesota, Nevada, New Mexico, New York, Oregon e Vermont – preoccupati per le ricadute sui consumatori e sulle economie locali.
Commercio globale e Supply Chain alla finestra
Una eventuale conferma dell’illegittimità dei dazi avrebbe conseguenze notevoli.
Prima di tutto, comporterebbe la rimozione delle barriere tariffarie, il che favorirebbe il ritorno ad una circolazione di prodotti internazionali a prezzi competitivi, con diversi benefici per i vari settori attualmente penalizzati.
Sarebbe anche necessario un ricalcolo dei contratti, in quanto le aziende dovrebbero rivedere accordi commerciali e strategie di approvvigionamento, mentre la Supply Chain aprirebbe una fase di riallineamento delle rotte logistiche e dei flussi di importazione, con potenziali riduzioni dei costi.
Alcuni studi legali specializzati in diritto doganale e commerciale internazionale, secondo la stampa di settore americana, hanno già suggerito alle aziende attive nell’import-export con e negli USA di monitorare l’evoluzione del contenzioso e di prepararsi a scenari alternativi.
Qualora la sentenza diventasse definitiva, le imprese dovrebbero valutare richieste di rimborso per dazi già versati, rivedere le clausole contrattuali relative ai costi doganali e alle variazioni normative e rafforzare la compliance doganale e la documentazione di importazione, per evitare rischi futuri.
Le conseguenze per la Casa Bianca
Se la Corte Suprema dovesse confermare l’illegittimità dei dazi perché imposti dall’Amministrazione Trump senza l’approvazione del Congresso, per il commercio globale e per la Supply Chain rappresenterebbe il crollo di una diga protezionistica e una sorta di ‘liberi tutti’, ma per la Casa Bianca sarebbe una debacle di portata storica.
Mentre Trump stesso e il suo consigliere Navarro, ideatore della politica economica oggetto di critica, lanciano strali sul destino degli Stati Uniti nel caso in cui la Corte d’Appello dovesse dar loro torto e mentre ‘The Donald’ cerca di far pesare le ‘sue’ nomine alla Corte Suprema, la questione è e resta giuridica: i togati federali hanno stabilito che non sussistevano le condizioni per invocare l’IEEPA del 1977 per giustificare dazi permanenti su scala globale – un conto è reagire a una minaccia specifica, un altro è colpire indiscriminatamente tutti i partner commerciali degli Stati Uniti.
Il punto è che le implicazioni economiche di una sconfitta alla Corte Suprema taglierebbero le gambe al bilancio della Casa Bianca. Uno studio del Committee for a Responsible Federal Budget (CRFB), organizzazione indipendente di analisi del bilancio federale citata da Repubblica, il 71% delle entrate figlie dei dazi verrebbe spazzato via. Per capirne l’entità, bisogna sapere che solo fino a luglio 2025, le tariffe avevano generato 159 miliardi di dollari, più del doppio rispetto all’anno precedente e che, in agosto, il gettito è stato di 31 miliardi di dollari.
In caso di annullamento definitivo, migliaia di aziende potrebbero avanzare richieste di rimborso per i dazi già versati, generando una pressione fiscale e amministrativa senza precedenti: il Tesoro federale si troverebbe esposto a una debacle contabile, con impatti diretti sul bilancio pubblico e sulla credibilità della politica commerciale statunitense.
In definitiva, la posta in gioco non riguarda solo la legittimità di una misura economica, ma l’equilibrio tra poteri costituzionali, la tenuta del sistema fiscale e la posizione degli Stati Uniti nel commercio globale.