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Dazi: per la Michigan University pesano sulle aziende USA; la UE resta in bilico 

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In attesa di capire che cosa Washington deciderà di fare con i propri partner commerciali in giro per il mondo – prima fra tutte la UE e i singoli stati membri – si sollevano delle voci che interpretano lo scetticismo interno agli Stati Uniti stessi: un esempio è portato adesso da uno studio della Michigan State University (MSU), che analizza le ripercussioni dei dazi e della gestione della strategia commerciale sul mercato interno delle aziende e dei privati.

Da inizio anno, come ormai noto, gli Stati Uniti hanno varato la più ampia ondata di dazi dagli anni ’30, generando un terremoto economico globale. Secondo lo studio ‘Shock and Awe: A Theoretical Framework and Data Sources for Studying the Impact of 2025 U.S. Tariff Increases‘ della Broad College of Business della Michigan State University, pubblicato sul Journal of Supply Chain Management, i dazi prima imposti, poi revocati e nuovamente reintrodotti in rapida successione, hanno creato un contesto di estrema incertezza. 

Le imprese americane, continua lo studio, per far fronte alla volatilità, hanno dovuto gestire fino a 10 piani di approvvigionamento alternativi, con costi elevati in tre categorie, quella dell’adattamento, della transazione e dell’opportunità.

Sempre la MSU evidenzia come le aziende abbiano reagito in modo disorganico ed è tutt’altro che secondario l’impatto sociale: l’aumento dei prezzi in alcune sezioni merceologiche, come quella alimentare, ha colpito duramente le famiglie a basso reddito. Prodotti come banane e caffè, privi di alternative interne, sono diventati simboli della fragilità del sistema.

Certo, stando ai dati, le casse di Washington ne stanno giovando: i dazi riscossi ad aprile 2025 sulle importazioni negli USA ammontano a 19,3 miliardi di dollari, il 250% in più rispetto alla media mensile del 2019. Va però considerato la dipendenza – senza alternative nell’immediato – degli Stati Uniti dalle importazioni: il 59% della frutta e verdura consumata negli USA è importata.

Due degli obiettivi per i quali i dazi sono funzionali alle politiche di Trump sono il progetto che lo stesso presidente si è intestato di riportare la manifattura in America e, soprattutto, finanziare il “Big Beautiful Bill”, una legge da 4.500 miliardi di dollari che include controversi tagli fiscali e spese per difesa e immigrazione; a tal fine, rifacendo i conti degli introiti a maggio, i dazi hanno fruttato 24,2 miliardi di dollari, metà dalla Cina e metà dal resto del mondo.

USA – UE, dazi al 17%: “take it or leave it

Trump ha annunciato l’invio di lettere “unilaterali” nei confronti di oltre 60 Paesi (le prime sono state recapitate nel pomeriggio di lunedì 7 luglio), che comunicano l’applicazione di dazi tra il 10% e il 70%, la cui entrata in vigore è prevista entro la nuova data limite del primo agosto. La UE è il primo obiettivo, sebbene non faccia parte della prima tranche di missive: l’ultimo dazio minacciato del 17% sull’agroalimentare europeo colpirebbe beni per 48 miliardi di euro l’anno

Se non si raggiungerà un accordo, che Bruxelles vorrebbe raggiungere intorno al 10% sulla maggior parte delle categorie merceologiche, le tariffe saliranno al 20% su tutti i beni europei, e fino al 50% per i Paesi ritenuti “non collaborativi”.

Per la cronaca, tra i prodotti colpiti ci sarebbero il cioccolato belga, il burro irlandese, l’olio d’oliva italiano, i prosciutti e i formaggi DOP.

La Francia, attraverso il ministro Eric Lombard, ha espresso preoccupazione per l’approccio aggressivo della Casa Bianca, paragonando USA, Cina e Russia a “tre bulli economici” che minano le regole multilaterali. Bruxelles, pur proseguendo i negoziati, ha preparato contromisure su 90 miliardi di euro di beni statunitensi, pronta a reagire qualora l’escalation non si arrestasse, ma, allo stesso tempo, conscia del ‘ricatto’ trumpiano: accettare l’asimmetria commerciale imposta o vivere in uno stato di continua incertezza.

Risposta UE: contromisure da 90 miliardi

Bruxelles, dicevamo, ha avviato una consultazione pubblica per definire una serie di contro-dazi mirati a colpire 90 miliardi di beni USA, tra cui bourbon e carne bovina, ma anche il settore aeronautico con aziende come Boeing e della componentistica per auto. 

Sempre la Francia spinge per una linea dura, invocando la protezione dell’industria europea. Intanto, le contromisure sono sospese fino al 14 luglio, data entro la quale Bruxelles spera di aver condotto il negoziato con Washington.

Italia: export in bilico

L’Italia è tra i Paesi più esposti nei confronti delle politiche tariffarie statunitensi. I dazi USA mettono a rischio circa 20 miliardi di euro di esportazioni, colpendo duramente settori trainanti come macchinari industriali, vino, olio e formaggi. 

Confindustria stima fino a 118.000 posti di lavoro a rischio, in particolare tra le PMI del Nord. Anche secondo Centromarca e Nomisma, i dazi USA potrebbero arrecare fino a 3,3 miliardi di euro di danni all’export italiano, penalizzando il settore dei macchinari industriali, che vale €10 miliardi di export, e l’agroalimentare, in particolare vino (€1,9 miliardi da solo), olio, pasta, formaggi.

L’agroalimentare soffre inoltre una doppia pressione: l’aumento dei costi di esportazione e la maggiore concorrenza interna. Se i dazi entreranno in vigore così come sono, il danno per il comparto potrebbe superare i 2 miliardi di euro, compromettendo la competitività dei piccoli produttori.

Le stime di impatto calcolate a seconda delle due opzioni oggi sul tavolo, parlano di -489 milioni € di esportazioni in caso di dazi al 10% e di -3,3 miliardi € qualora scattassero dazi al 50%.

Inoltre, l’apprezzamento dell’euro (+11% nel primo semestre 2025) aggrava la perdita di competitività.

C’è poi da tenere in conto la reazione dei consumatori USA, tra i quali il 50% ritiene che i dazi influenzeranno negativamente i propri acquisti e il 30–40% ridurrà il consumo di prodotti italiani.

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