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Dazi, promesse e paradossi: contraddizioni economiche USA vs Europa

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Image by wirestock on Freepik

Qualcuno l’ha definita “Trumpnomics”: è la politica commerciale del presidente degli Stati Uniti, spesso contraddistinta da una spiccata imprevedibilità. Ciò malgrado, negli ultimi mesi alcuni segnali sembravano indicare una svolta: l’ordine esecutivo firmato da Trump tra fine agosto e inizio settembre su quelle che lui stesso chiama “tariffe reciproche” ha esentato alcune categorie di prodotti — come lingotti d’oro e metalli rari, non proprio beni di smercio comune — dalle tasse doganali. 

Bruxelles ha comunque accolto la notizia con cauto ottimismo, sperando che questa apertura potesse preludere a una riduzione dei dazi su quei beni europei, in particolare auto e loro componenti, oggi tassati fino al 27,5%. L’obiettivo? Portarli al 15%, come già concesso al Giappone.

Il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic ha definito la mossa “un passo cruciale”, mentre Raffaele Fitto ha difeso l’accordo siglato in Scozia tra UE e USA, sostenendo che, nonostante le critiche, si tratti di uno dei migliori accordi commerciali globali. Tuttavia, dietro le dichiarazioni ufficiali si cela una realtà ben più complessa.

Il trucco delle tariffe: si scrive 15% ma si legge 50%

Tanta contraddittorietà e confusione da parte della Casa Bianca non sarebbe casuale: secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, la riduzione dei dazi annunciata da Washington sarebbe in gran parte illusoria

Il meccanismo è semplice quanto insidioso: le tariffe sull’acciaio e sull’alluminio, per citare quelle maggiormente oggetto di controversia, non si applicano ai soli materiali grezzi, ma anche a tutti i prodotti che li contengono. In questo modo, un macchinario europeo esportato negli USA può essere soggetto a dazi effettivi del 30% o addirittura del 50%, ben oltre il 15% nominale previsto dall’accordo.

Bertram Kawlath, presidente della VDMA (German Mechanical Engineering Industry Association), ha denunciato il problema in una lettera inviata a Ursula von der Leyen: circa il 30% dei macchinari europei esportati negli Stati Uniti è, nei fatti, ormai colpito da dazi insostenibili. Il Gruppo Krone, produttore di macchinari agricoli, ha interrotto le esportazioni verso gli USA, fermato la produzione e avviato persino dei licenziamenti, dirottando le spedizioni già in viaggio verso Messico e Canada.

Un accordo fragile e il rischio di una rottura

La presunta disponibilità – almeno secondo il WSJ – della Casa Bianca a tagliare le tariffe si scontra con una realtà burocratica contorta. Le tariffe vengono calcolate con percentuali diverse per prodotti finiti e singole parti, facendo così perdere il filo a chi cerca di seguirne la logica e producendo costi aggiuntivi. 

Sefcovic ha ammesso che le controparti americane “capiscono il problema”, ma non è in grado di prevedere quando — e se — verrà risolto.

Nel frattempo, cresce il malcontento da parte della politica, con diversi parlamentari europei che chiedono di rivedere o cancellare gli accordi. La voce esterna del Wall Street Journal è drastica e non esita a definire i dazi come una tassa che penalizza la crescita e, mentre il segretario al Tesoro USA Bessent chiede pazienza, il giornale propone una soluzione radicale: che la Corte Suprema dichiari incostituzionali le tariffe e le annulli, rendendo palese una vena di malcontento all’interno degli Stati Uniti stessi.

Tra illusioni e realtà

In ogni caso, la strategia economica di Trump verso l’Europa si muove su un crinale ambiguo: da un lato, promesse di apertura e riduzione dei dazi; dall’altro, meccanismi che li mantengono elevati e ostacoli burocratici che scoraggiano le imprese. 

La tregua commerciale siglata con l’UE rischia di sbriciolarsi in qualsiasi momento, alimentando sfiducia e instabilità. In un mondo dove “non si fanno più troppi complimenti”, come ha detto Valdis Dombrovskis, l’Europa deve imparare a farsi rispettare — e, magari, anche a riconoscere quando le regole del gioco sono truccate.

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