FastFashion, l’Italia in difesa della Supply Chain della moda

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L’Italia si muove contro la concorrenza, ritenuta sleale, delle piattaforme online: il governo italiano ha annunciato l’intenzione di introdurre una tassa aggiuntiva sui prodotti di fast fashion importati dalla Cina, con l’obiettivo di proteggere l’industria nazionale della moda da una concorrenza sempre più aggressiva. Secondo fonti governative citate da Reuters, il provvedimento sarà rivolto principalmente ai siti di e-commerce come gli ormai arcinoti Temu e Shein, che operano con modelli di vendita diretta dalle fabbriche cinesi ai consumatori di tutto il mondo, compresi quelli italiani.

La misura, che si inserisce nel quadro della direttiva europea sulla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), obbligherà i produttori a coprire i costi di raccolta, selezione e riciclo dei prodotti una volta diventati rifiuti.

Parallelamente, il governo italiano ha avviato un piano per rafforzare i controlli sulla filiera produttiva interna, dopo una serie di scandali che hanno coinvolto marchi di lusso. Cinque brand sono già stati posti sotto amministrazione giudiziaria per violazioni legate ai diritti dei lavoratori, mentre in un altro caso è scattata l’accusa di non aver vigilato adeguatamente sui propri fornitori.

La situazione UE: anche la Francia chiede misure drastiche

Contro il fenomeno erosivo del fast fashion l’Italia non è che l’ultima in ordine a schierarsi: la vicina Francia, per esempio, ha adottato un approccio ancora più severo. L’Eliseo ha chiesto alla Commissione Europea di dotarsi di ‘nuovi poteri di de-referenziazione’ per rimuovere dai motori di ricerca le piattaforme che violano le normative UE, con particolare attenzione, anche in questo caso, alla cinese Shein. La proposta, avanzata dal Ministro del Commercio Véronique Louwagie, mira a rendere invisibili online le aziende non conformi, impedendo che appaiano nei risultati di ricerca dei motori come Google e simili.

Shein è per altro già stata multata per 40 milioni di euro dall’autorità antitrust francese per pratiche commerciali ingannevoli; inoltre, la Commission Nationale de l’Informatique et des Libertés (CNIL) ha inflitto una sanzione di 150 milioni di euro alla filiale irlandese del gruppo per violazioni relative ai cookie sul sito della piattaforma Shein, accusando l’azienda di aver inserito cookie senza consenso e di non aver rispettato le scelte degli utenti.

Una reazione occidentale coordinata

La risposta europea si inserisce in un contesto globale di crescente tensione commerciale nei confronti delle aziende di Pechino. Dopo le tariffe imposte dagli Stati Uniti con l’arrivo della presidenza di Donald Trump, la Cina ha reindirizzato parte delle esportazioni verso l’Europa, offrendo prodotti a prezzi sempre più competitivi e in quantità e con tempistiche ineguagliabili per la scala di produzione e distribuzione delle aziende europee. Il punto di vista di molti è che Pechino approfitti della globalizzazione, sfruttando pratiche commerciali spregiudicate.

Non che la Cina sia rimasta a guardare, anzi, ha reagito chiedendo un trattamento equo per le proprie imprese, soprattutto dopo la proposta dell’UE di introdurre una tassa di 2 euro su ogni pacco spedito direttamente al consumatore. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha espresso preoccupazione per le misure europee, sottolineando la necessità di garantire condizioni paritarie.

Nel frattempo, è anche vero che il modello di business delle piattaforme cinesi ha fatto scuola e continua a espandersi. Proprio in Italia è stato lanciato Amazon Haul, che adotta lo stesso schema di Temu e Shein, andando a sua volta ad aumentare la pressione sulla filiera locale. D’altronde, lo schema utilizzato paga: stando ai dati di Shein, l’app conta circa 22,8 milioni di utenti mensili in Italia, mentre in Francia il sito della piattaforma di e-commerce riceve in media 12 milioni di visite mensili.

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