L’autotrasporto dimagrisce

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Da oltre trent’anni da più parti si denuncia l’elevata frammentazione imprenditoriale dell’autotrasporto italiano, che impedisce alle aziende di crescere, inibendo così la riduzione dei costi dovuta all’economia di scala, e favorisce una concorrenza selvaggia tra gli operatori basata molto spesso sulla guerra tariffaria.

Nonostante alcuni tentativi di agevolare l’aggregazione, tramite consorzi o fusioni tra società, oppure l’esodo dalla professione con incentivi per la rottamazione dei veicoli e la contestuale chiusura delle aziende, la frammentazione contraddistingue ancora il panorama dell’autotrasporto italiano.

Però, da qualche anno è iniziata una tendenza alla riduzione delle micro-imprese, causata però non dalla consapevolezza dei vantaggi di una crescita imprenditoriale o da incentivi pubblici, ma da altri due fattori: la crisi macroeconomica del 2008, che in Italia ha avuto un’onda lunga che in alcuni casi percepiamo ancora oggi, e l’apertura ai vettori dell’Est, che ha ulteriormente aumentato la guerra dei prezzi. Una guerra che i vettori italiani non possono certo vincere con un costo del personale viaggiante quasi doppio rispetto a quello dei Paesi dell’Est.

Il calo dei padroncini è fotografato da un’indagine della Fita, l’associazione degli autotrasportatori artigiani della Cna e si può riassumere con un dato: dal 2009 al 2015 il numero delle imprese di autotrasporto rilevato dall’Agenzia delle Entrate (e quindi
effettivamente operanti) è passato da 81mila e 67mila unità.

Una perdita netta di 14mila società che appartiene in gran parte alla categoria delle Pmi. Lo dimostra il fatto che nello stesso periodo è aumentato, seppur leggermente, il numero medio dei dipendenti per impresa da 4,1 a 4,4 e il numero medio dei veicoli industriali con massa complessiva superiore a 11,5 tonnellate, passato da 2,6 a 2,8 unità per azienda.

L’associazione degli autotrasportatori cerca di fotografare anche i cambiamenti di ordine qualitativo, analizzando l’andamento delle merci trasportate. Così, emerge che sono aumentate le imprese di autotrasporto che muovono prodotti alimentari e agricoli, mentre sono calate quelle che trasportano manufatti e materiali per l’edilizia. Una tendenza curiosa, se si considera che l’agricoltura produce solo il 2,2 del Pil nazionale, mentre la spesa alimentare non mostra incrementi clamorosi. In questo caso, si può ipotizzare che i vettori italiani siano ripiegati su due specializzazioni che non subiscono in modo rilevante la concorrenza estera, almeno nel trasporto nazionale, e nello stesso tempo la grande distribuzione organizzata, in crescita negli ultimi anni, pretende aziende strutturate con flotte e magazzini a scapito di quelle artigianali.

La riduzione delle imprese e la necessità di tagliare i costi aumenta la percorrenza dei veicoli: così, dal 2009 al 2015 quella media annuale per automezzo è passata da 190.235 a 216.725 chilometri.

Ma, rileva la Fita, la percentuale di chilometri a vuoto resta ancora molto elevata, essendo pari al 33%. Ciò significa che un camion su tre viaggia senza trasportare nulla (almeno dal punto di vista della statistica).

Sempre dalle dichiarazioni all’Agenzia delle Entrate, emerge che nel 2015 mediamente gli autotrasportatori hanno ricavato 1,64 euro per chilometro percorso, contro 1,51 euro del 2009. Ma la stessa associazione rileva che questo dato cozza contro la realtà del mercato vissuta ogni giorno dagli autotrasportatori, che mostrano tariffe chilometriche nettamente inferiori. La Fita giustifica questa differenza con un’errata indicazione dei chilometri dichiarati nello studio di settore (che quindi sarebbe inferiore a quella reale).

Qualunque siano i ricavi reali, la Fita conclude che l’autotrasporto contribuisce ogni anno al gettito fiscale con 500 milioni di euro, cui si aggiungono altri 500 milioni per i premi assicurativi.

A cura di Claudio Corbetta

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