La relazione economica tra Europa e Cina è stata uno dei pilastri del commercio nell’era della globalizzazione, liaison che sta però mostrando la corda a fronte della necessità del Vecchio Continente di proteggere le proprie sicurezza ed autonomia.
La dinamica costruita nei decenni, partita dalle delocalizzazioni senza freni delle industrie occidentali verso i Paesi asiatici, si è esasperata al punto da corrispondere ad un trasferimento quasi totale delle produzioni, mantenendo a malapena la ricerca e lo sviluppo in casa.
Pechino, con l’aggressività tipica di chi ha tanta forza uomo – e, soprattutto, tanta fame, metaforica e non solo – ha dimostrato sin dalla fine degli anni Duemila di poter invadere i mercati europei con le proprie merci a basso costo e, da alcuni anni, anche esportando prodotti sviluppati con piena proprietà intellettuale e del relativo know how.
Di fatto, proprio quelle industrie che il ‘sapere’ lo hanno esportato per decenni si trovano adesso erose nelle loro stesse fondamenta, in effetti già spodestate in casa da quelle quote di mercato loro necessarie a sopravvivere. Per questo negli ultimi tempi le aziende europee hanno iniziato a rivedere la propria presenza nel Paese asiatico, cercando di uscire da quella visione viziante di una Cina ‘fabbrica del mondo’; le spinte sono arrivate da tensioni geopolitiche inaudite come quelle degli ultimi mesi, da squilibri commerciali ormai insostenibili e anche dalle nuove politiche di Pechino.
La diversificazione delle catene di approvvigionamento è diventata una di quelle priorità che la vulgata del momento adora definire ‘strategiche’ e che non sarebbe sbagliato chiamare vitali per l’autonomia del continente, motivo per cui l’Unione Europea sta accelerando le misure per ridurre la dipendenza da un partner commerciale tanto importante quanto problematico.
La spinta alla diversificazione
Secondo un rapporto della European Union Chamber of Commerce per la Cina, oltre il 70% delle imprese europee presenti nel Paese asiatico ha rivisto le proprie strategie di approvvigionamento negli ultimi due anni. Le ragioni alla base di questa inversione di tendenza sono molteplici e vanno dalla pragmatica conseguenza della politica cinese cosiddetta ‘di autosufficienza’ rafforzata dai controlli sulle esportazioni di materie prime critiche, alla crescente instabilità dei flussi commerciali globali.
Gli approcci sono molteplici e ci sono aziende che hanno scelto di potenziare la produzione interna alla Cina per ridurre i rischi legati alle importazioni, mentre altre hanno iniziato a costruire catene di fornitura alternative al di fuori dal Paese.
Non è poi da sottovalutare anche l’effetto – psicologico, quando non pratico – dei dazi imposto dall’Amministrazione della Casa Bianca, che non riguardano direttamente le filiere destinate alla UE, ma che stanno provocando un effetto domino di ristrutturazioni globali in giro per l’industria planetaria.
Squilibri commerciali e tensioni valutarie
È notizia recente che il surplus commerciale cinese ha superato i mille miliardi di dollari, dato da inquadrare nel contesto di un riassetto delle esportazioni del Dragone, che verso gli Stati Uniti le ha viste drasticamente calate (-29%), mentre sono cresciute quelle verso l’Europa (+14,8%).
Un fatto che si è verificato anche per via delle chiusure commerciali messe in atto da Washington nei confronti delle merci cinesi, come lo stop all’esenzione dalle tariffe doganali in ingresso per le merci di scarso valore, parallelamente alla politica dei dazi.
Il rivolgersi sempre maggiore delle esportazioni cinesi verso il Vecchio Continente – oltre ad Australia e sud-est asiatico – ha ampliato lo squilibrio tra UE e Cina, passando da un rapporto di 1:2,7 del 2019 a 1:4 in termini di container spediti. A complicare il quadro si aggiunge la deflazione persistente in Cina e il deprezzamento dello yuan rispetto all’euro, fattori che rendono più difficile per le imprese europee mantenere margini competitivi.
Differenze settoriali
C’è poi la reazione delle industrie europee, che non è uniforme ed è stata fortemente condizionata dallo stress provocato dalla stretta di Pechino sulle forniture di terre rare.
Secondo la European Union Chamber of Commerce, oltre i due terzi delle aziende europee che operano in Cina hanno modificato la propria Supply Chain nell’arco degli ultimi due anni e, come detto, un quarto lo ha fatto investendo maggiormente sul mercato interno cinese, mentre un 10% ha cercato di mettere in piedi strade alternative.
Guardando al settore farmaceutico, l’80% delle aziende ha puntato sulla localizzazione, mentre quasi la metà dei produttori di macchinari ha seguito la stessa strada. Al contrario, comparti come IT (33%), telecomunicazioni e retail (25%) hanno avviato processi di diversificazione, cercando fornitori e stabilimenti fuori dalla Cina.
Il dato davvero preoccupante è che circa un quinto delle imprese europee resta vincolato a componenti critici cinesi per i quali non esistono alternative praticabili, segnalando una vulnerabilità strutturale frutto di decenni di scarsa lungimiranza industriale a livello continentale.



