Nell’ultimo weekend di luglio 2025, durante il vertice tenutosi in Scozia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo commerciale – in qualche modo definibile ‘storico’, a prescindere dai mal di pancia interni – per scongiurare una guerra doganale tra le due potenze economiche.
A partire dal 1° agosto, la maggior parte delle esportazioni europee verso gli USA sarà soggetta ad un dazio unificato del 15%: l’intesa, annunciata da Donald Trump e Ursula von der Leyen e, per la verità, non ancora ratificata su carta, rappresenta un compromesso tra il dazio zero inizialmente auspicato da Bruxelles e il 30% minacciato da Washington in caso di mancato accordo.
Secondo Confcommercio, si tratta di una misura che garantisce “certezza e stabilità”, ma con un costo rilevante per le imprese. I dazi orizzontali al 15%, di fatto, triplicano le aliquote medie preesistenti ma evitano scenari più penalizzanti (l’Automotive, ad esempio, ne beneficia, per quanto molti Paesi membri della UE sperassero in un accordo sul 10%.
In parallelo, l’UE si è impegnata ad acquistare 750 miliardi di dollari di energia statunitense nei prossimi tre anni e a investire altri 600 miliardi negli USA.
Gli effetti dei dazi settore per settore
Capire come si evolverà la situazione è complicato, anche perché ogni settore industriale e merceologico costituisce un capitolo a sé.
Partendo dalla farmaceutica, ad esempio, la posizione rimane incerta: Von Der Leyen è uscita dall’incontro con Trump sostenendo che il 15% sia un tetto massimo applicato anche al settore Pharma, ma Washington non ha pienamente confermato, anzi. Gli USA stanno conducendo delle indagini commerciali come quelle che fecero da preludio ai dazi sull’acciaio, dunque non è per niente detto che le esportazioni farmaceutiche non siano soggette ad ulteriori tassazioni. Da questo punto di vista, va ricordato che per l’Italia si tratta di un canale cresciuto enormemente negli ultimi anni, con esportazioni annuali di medicinali verso gli USA che ammontano a circa 10 miliardi di euro in valore.
Chi può avere maggiori motivi di ‘festeggiare’ è l’Automotive, che beneficia di una riduzione del dazio applicatole passando dal 27,5% al 15%; si tratta di un vantaggio netto per le case produttrici europee, simile a quanto già riconosciuto al Giappone. Ad essere particolarmente interessate sono le Case produttrici tedesche, che negli Stati Uniti vantano una presenza consolidata. All’indomani della prima ondata di dazi, Marchi come Volkswagen e Daimler avevano ‘congelato’ le esportazioni verso gli USA, bloccando intere navi di vetture nuove nei docks.
Per la Logistica di settore è una buona notizia, se si pensa al flusso di spedizioni che le forniture automobilistiche alimentano verso porti specializzati e quasi dedicati come quello americano di Baltimora.
L’agroalimentare è, invece, il comparto più esposto. Secondo l’Unione Italiana Vini, l’accordo del 15% colpirà il 70% delle esportazioni italiane verso gli USA, con un danno stimato tra i 317 e i 460 milioni di euro in 12 mesi. L’impatto sarà amplificato dalla svalutazione del dollaro, stimata al 17%, secondo un’analisi di Confcommercio.
Anche il mondo del tessile e dell’abbigliamento vede davanti a sé tre scenari ipotizzati, tutti penalizzanti, con dazi che si aggiungono o si sostituiscono a quelli esistenti (fino al 26% per alcune merceologie). In questo caso, l’incertezza sta bloccando investimenti e pianificazione nel settore.
Per quanto riguarda la siderurgia, acciaio e alluminio restano soggetti al dazio del 50%, anche se è in discussione un possibile sistema di quote basato sui flussi commerciali storici e, nel campo della meccanica e dei chip, i semiconduttori dovrebbero restare esenti, sebbene Trump abbia già annunciato dazi progressivi. Qui è soprattutto la meccanica strumentale italiana a temere un impatto negativo su un settore abituato ad una robusta domanda da parte degli USA.
Economia italiana sotto pressione?
Per l’Italia, il dazio al 15% genera una perdita diretta stimata tra gli 8 e i 10 miliardi di euro, secondo Confcommercio. In cima alla lista della vulnerabilità ci sono le PMI esportatrici, che affrontano in toto il peso dei dazi, cui si sommano costi di transazione maggiorati rispetto al passato e una valuta sfavorevole.
Secondo le stime della Commissione Europea, il PIL italiano potrebbe perdere fino a 0,3 punti percentuali; eclatante il caso del food & beverage, per il quale il prezzo finale di una bottiglia da 5€ destinata al mercato statunitense potrebbe salire a 15$ in corsia e a 60$ nei ristoranti, come spiegato dalla UIV a Confcommercio.
Si tratta di uno shock che rischia di compromettere in un colpo solo la competitività e il posizionamento dei prodotti italiani nei mercati d’oltreoceano.
Confcommercio e il Governo italiano hanno comunque ipotizzato il ricorso a misure di compensazione e supporto per alcuni settori.
Logistica: ripercussioni su flussi e margini
Il dazio al 15%, per quanto inferiore a quelli dichiarati inizialmente, modificherà stabilmente le dinamiche logistiche dei flussi transatlantici tra Europa e America.
I costi doganali aumenteranno il valore medio delle spedizioni, con la conseguenza di rendere poco vantaggioso il trasporto marittimo di beni a basso margine; è quindi prevedibile una riduzione della frequenza dei carichi per alcuni comparti, soprattutto nell’alimentare e nel tessile, con la possibilità che i vettori optino per ottimizzare le spedizioni, organizzandone di combinate e puntando sull’intermodalità.
Le aziende logistiche dovranno probabilmente ristrutturare i piani tariffari, dunque quelli contrattuali, ma anche quelli assicurativi non sono esenti da una revisione.
Un aspetto legato all’accordo sull’acquisto di energia dagli USA, anche in ottica di una riduzione della dipendenza dall’idrocarburo russo, esplicitato da Race Consulting al Corriere della Sera, è che i contratti energetici tra UE e USA saranno gestiti da operatori privati, creando nuovi corridoi logistici per petrolio e GNL, con impatto positivo sulle rotte atlantiche ma pressioni su infrastrutture e capacità portuali.