Lo Stretto di Hormuz rappresenta un collo di bottiglia critico per l’economia globale: ogni giorno vi transitano oltre 20 milioni di barili di petrolio e gas naturale liquefatto, pari a circa il 20% del consumo mondiale.
Le rotte di esportazione di Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi e Qatar convergono in questo tratto largo appena 21 miglia, ma abbastanza profondo da farvi transitare le superpetroliere: è evidente come qualsiasi alterazione del traffico in quest’area si ripercuota istantaneamente sui mercati energetici.
Le strategie di guerra israeliane e statunitensi, forse, giocano un azzardo basato sulla considerazione che l’84% del greggio in transito è destinato all’Asia — in particolare verso la Cina e l’India, una apertamente in contrasto con gli Washington nello scacchiere globale e l’altra parte integrante di quei BRICS che sostengono l’economia russa, ma anche verso partner occidentali strategici come Giappone e Corea del Sud.
La Cina dipende dallo Stretto per il 47% del proprio approvvigionamento marittimo di greggio, il che gioca a favore degli USA nel pensare che Pechino non gradirebbe un blocco dello stretto di accesso al Golfo Persico.
Meno vulnerabile, da questo punto di vista, il quadro statunitense: nel 2024, solo il 7% delle importazioni americane proveniva dal Golfo, il dato più basso da quarant’anni.
Una rotta da 1.000 miliardi di dollari
Lo Stretto di Hormuz è quindi uno snodo energetico insostituibile: entrando nel dettaglio, nel 2024 la U.S. Energy Information Administration (EIA) ha registrato transiti medi per 20,3 milioni di barili di petrolio al giorno — che rappresentano per l’appunto quasi il 20% del consumo globale.
Considerando un prezzo medio annuo di $80 per barile, il volume di affari si aggira intorno ai 1.600 milioni di dollari al giorno, ovvero oltre 500 miliardi l’anno solo in valore greggio.
La maggior parte di questi volumi proviene da Arabia Saudita (6,2 mbg), Iraq (3,3 mbg), Emirati Arabi (2,9 mbg), Kuwait, Iran e Qatar, includendo anche traffico di gas naturale liquefatto.
L’escalation militare e il paradosso iraniano
Dopo l’attacco USA del 22 giugno a tre impianti di arricchimento dell’uranio in Iran, e la successiva risposta missilistica di Teheran verso basi americane in Iraq e Qatar, l’ipotesi di una chiusura dello Stretto, già ventilata nella prima fase del conflitto, è tutt’altro che accantonata.
Il Parlamento iraniano ha approvato un progetto di legge in tal senso, pur demandando la decisione finale al Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale: al momento Teheran sembra essersi limitata alla sola risposta missilistica contro le basi americane in Qatar e Iraq, sopra alla quale gli USA avrebbero messo il cappello di una tregua di 12 giorni nel tentativo di congelare un situazione che è lecito pensare stia però stretta al regime degli Ayatollah.
È possibile che Teheran tenga nella manica ‘l’asso’ del blocco di Hormuz: in quanto a capacità, essa dispone infatti di un arsenale utile a bloccarne l’accesso, composto da barchini veloci, mine navali e missili antinave; da non trascurare anche il supporto di alleati come gli Houthi nello Yemen, già attivi nel teatro del Mar Rosso.
Tuttavia, la chiusura minerebbe le stesse esportazioni iraniane — oltre 1,4 milioni di barili/giorno, che il solo terminale petrolifero iraniano al di fuori del Golfo Persico, Jask, non sarebbe in grado di compensare — e colpirebbe la Cina, principale acquirente, oltre che alleati arabi come Iraq o Qatar, paradossalmente meno ostili. A complicare il quadro, c’è da tenere in conto anche che interrompere la navigazione significherebbe violare le acque dell’Oman, partner diplomatico e mediatore di lungo corso, aprendo un ulteriore crisi.
In questo scenario, gli USA hanno già minacciato di intervenire per sbloccare il passaggio, con un possibile sostegno UE e, cosa non di secondo piano, cinese.
L’ipotesi peggiore: Hormuz e Mar Rosso bloccati
Volendo prepararsi al peggio, uno sguardo pessimista al futuro contemplerebbe la simultanea chiusura dello Stretto e la ripresa degli attacchi Houthi alla rotta di Bab el-Mandeb nel Mar Rosso. La conseguenza? Il blocco di entrambi i principali corridoi energetici del Medio Oriente, con impatti devastanti su shipping, assicurazioni marittime e catene globali di approvvigionamento.
Questo scenario, il più critico, causerebbe in primis uno shock energetico simile — per intensità — a quello della crisi del Canale di Suez del 2021 (Ever Given), solo che questa volta sarebbe su scala globale e protratta.
Già le operazioni di guerra di questi giorni hanno fatto registrare un assaggio di quanto accadrebbe se gli equilibri delle rotte commerciali in Medio Oriente venissero alterati: il riferimento è agli spazi aerei chiusi su Qatar e Israele (con Qatar Airways, El Al e Sundor che hanno sospeso i voli precauzionalmente anche sino a fine mese), alle deviazioni marittime da parte di Maersk, Hapag-Lloyd, Mitsui OSK e NYK e un taglio netto delle soste nello scalo di Haifa da parte dei vettori mercantili, unitamente ad un maggiore rischio assicurativo sulle rotte del Golfo e del Levante.
Prezzo del petrolio volatile, logistica sotto pressione
Com’era da aspettarsi, il prezzo del petrolio ha reagito con una forte dose di volatilità: il Brent è passato da $67 a $79 al barile in tre settimane (+18%), scendendo poi a $71,48 dopo che non vi è stata una effettiva chiusura dello Stretto.
Il WTI è calato a $68,51, ma gli analisti di Goldman Sachs avvertono: una chiusura reale potrebbe portare i prezzi sopra i $110, con impatti immediati su trasporto marittimo, terrestre e aereo.
I costi non restano teorici: in Italia, il prezzo della benzina ha superato €1,91/litro, nonostante il calo temporaneo dei futures; la spiegazione risiederebbe nei premi di rischio incorporati, nei contratti spot, e negli aumenti assicurativi e logistici in arrivo da Asia e Medio Oriente.
Previsioni e diplomazia d’urgenza
Sebbene Washington abbia proclamato un cessate il fuoco unilaterale, la situazione è tutt’altro che stabile.
USA, UE, Cina e India hanno attivato canali diplomatici per evitare un’escalation irreversibile e tutelare la libertà di navigazione internazionale, sancita anche dal diritto marittimo internazionale (UNCLOS).
In contemporanea, le catene logistiche globali si preparano: le compagnie assicurative stanno ricalcolando i premi per le rotte che toccano Hormuz, alcune aziende europee stanno valutando stoccaggi strategici anticipati e i terminali alternativi in Arabia Saudita (Yanbu) e negli EAU (Fujairah) vengono osservati come possibili vie di fuga, pur avendo capacità limitata (meno del 10% dei volumi attuali dello Stretto).
Lo shipping, oggi più che mai, guarda ad Hormuz come cartina di tornasole della stabilità economica globale: USA, UE, Cina e altri attori intensificano i contatti per evitare un precipizio strategico.
Intanto, gli operatori marittimi e logistici si muovono in modalità emergenza: flessibilità, vigilanza e piani di contingenza sono ora la norma; ma finché lo Stretto di Hormuz rimarrà un potenziale detonatore globale, l’instabilità resterà incorporata nel prezzo del greggio.