Semiconduttori e terre rare, il nuovo scontro nelle Supply Chain globali

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La competizione tra Cina e Stati Uniti è in continua evoluzione e ha superato da tempo i confini delle tariffe e degli accordi commerciali. 

Il terreno dello scontro, oggi, si è trasferito su un livello più profondo, ossia quello delle risorse strategiche e delle tecnologie chiave. Le terre rare, i software definiti ‘critici’ per la competitività di comparti industriali e per la sicurezza nazionale e le batterie per l’accumulo di energia su larga scala sono diventati strumenti di pressione geopolitica, usati da entrambe le potenze per influenzare i negoziati, proteggere gli interessi nazionali e ridisegnare le supply chain globali.

Stiamo assistendo al ribaltamento di un assunto dato per scontato fino a tutto il primo ventennio degli anni Duemila, ossia che la Cina fosse solo la fabbrica del mondo. Per decenni, le economie occidentali hanno fatto affidamento su Pechino come fulcro produttivo per la manifattura tecnologica, approfittando di costi contenuti e di una capacità industriale senza pari. 

Tuttavia, il recente cambio di strategia di Pechino sta capovolgendo gli equilibri della supply chain globale dei semiconduttori. Con il rafforzamento dei controlli sulle esportazioni di terre rare e l’intensificazione delle indagini antitrust contro aziende statunitensi come Qualcomm e NVIDIA, la Cina non si limita più a difendersi dalle restrizioni occidentali, ma assume una postura offensiva.

Terre rare: il primo fronte

La Cina ha storicamente dominato il mercato delle terre rare, controllando circa il 70% della produzione globale e l’80% della raffinazione. Questi elementi — si tratta di un gruppo di 17 elementi chimici, tra i quali il neodimio e il disprosio — sono essenziali per la produzione di tutto quanto è oggi in testa alle priorità di qualsiasi Paese: semiconduttori, batterie, magneti industriali e hardware militare necessitano di queste materie prime. 

Non è dunque difficile immaginare come il quasi monopolio del settore garantisca una formidabile leva geopolitica.

A ottobre 2025, Pechino ha annunciato nuove restrizioni sull’export di terre rare, imponendo revisioni individuali per applicazioni avanzate come chip sotto i 14 nanometri e memorie con oltre 256 strati.

Le nuove normative, in vigore da dicembre, estendono i controlli non solo ai materiali grezzi, ma anche alle tecnologie di lavorazione e al know-how industriale, con il chiaro obiettivo di impedire che competenze e risorse strategiche finiscano in mani ritenute ostili alla sicurezza nazionale.

Queste misure colpiscono direttamente la catena del valore dei semiconduttori che è centrata sugli USA, coinvolgendo aziende come ASML, Samsung, SK Hynix e TSMC: lo spostamento del baricentro della supply chain dei semiconduttori avrebbe implicazioni profonde e aziende come quelle citate, che dipendono dalle terre rare cinesi per le loro apparecchiature, rischiano ritardi e interruzioni produttive. Tra i giornali americani, Bloomberg ha già ipotizzato possibili disguidi nelle spedizioni di apparecchiature litografiche, mentre il Financial Times ha evidenziato il rischio di caos in tutta la supply chain globale.

La risposta americana passa dal software

In reazione alle restrizioni cinesi, il presidente Donald Trump ha annunciato dazi del 100% su tutte le importazioni dalla Cina e controlli sull’export di “qualsiasi software critico” dagli Stati Uniti. Le misure decise dalla Casa Bianca mirano senza troppe carinerie a colpire le ambizioni tecnologiche cinesi, in particolare nel campo dell’intelligenza artificiale e del calcolo avanzato.

Secondo la testata Tom’s Hardware, i controlli sul software potrebbero essere più devastanti dei dazi, poiché limitano l’accesso cinese a strumenti fondamentali per lo sviluppo industriale. A sottolineare il tutto, la mossa di Trump è stata accompagnata da una retorica aggressiva: ha definito le azioni cinesi “sinistre” e ha minacciato di disertare un incontro con Xi Jinping previsto in Corea del Sud.

Il botta e risposta sino-americano rappresenta un salto di qualità rispetto a quanto già fatto in passato dai due Paesi: già a partire dal 2019, infatti, gli Stati Uniti hanno imposto restrizioni all’export di semiconduttori avanzati verso la Cina, colpendo apertamente aziende come Huawei – la stessa che venne pressoché bandita dal mercato USA. 

Per tutta risposta, Pechino ha investito massicciamente nell’autosufficienza tecnologica durante gli anni successivi e oggi, con una filiera interna più robusta, può permettersi di colpire i nodi critici della supply chain occidentale. Le indagini su Qualcomm e NVIDIA, unite al blocco delle importazioni di chip AI, rappresentano quindi una nuova fase di una competizione che ha radici lontane.

Batterie: il nuovo campo di battaglia

La Cina intende inoltre aprire un nuovo fronte, imponendo restrizioni sull’export di batterie agli ioni di litio, di materiali per anodi e catodi, nonché di macchinari per la loro produzione. Tutte queste tecnologie sono cruciali per l’accumulo energetico, soprattutto negli Stati Uniti, dove la domanda è esplosa a causa del boom dei data center per l’IA.

Una bella grana per l’industria hi-tech USA: secondo BNEF, il 65% delle batterie su scala industriale importate dagli USA nei primi sette mesi del 2025 proviene dalla Cina. La capacità installata negli USA ha raggiunto i 26 GW nel 2024, con previsioni di 136 GW entro il 2035. Se a ciò si aggiunge che la Cina controlla il 96% della capacità globale di produzione di anodi e l’85% di quella dei catodi, è difficile immaginare una sua sostituzione rapida nell’elenco dei fornitori.

Le restrizioni cinesi hanno già avuto impatti tangibili: le azioni di Fluence Energy sono crollate del 12%, quelle di Tesla del 5%. Aziende come Dragonfly Energy, invece, stanno accelerando l’innovazione domestica per ridurre la dipendenza da componenti cinesi.

Geopolitica delle risorse strategiche

La ‘weaponizzazione’ (ossia il renderle alla stregua di vere e proprie ‘armi’) di terre rare, software e batterie rappresenta una trasformazione profonda del conflitto economico tra Cina e USA. Non si può più solo parlare di protezionismo, si tratta di una guerra industriale tout court, dove le risorse diventano armi e le supply chain campi di battaglia.

Dal suo punto di vista, la Cina mira a consolidare la propria leadership in settori chiave per i decenni a venire, evitando la frammentazione del controllo di tecnologie strategiche in giro per il globo, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, cercano di contenere l’ascesa cinese con misure punitive e investimenti in filiere alternative. 

Il fatto è che, dopo decenni di filiere globalizzate e delocalizzate, la dipendenza reciproca resta elevata e ogni mossa genera effetti a catena su scala globale.

Una nuova resilienza tecnologica

In questo scenario, la resilienza diventa la parola chiave. Le aziende devono ripensare le proprie catene di approvvigionamento, investire in riciclo, innovazione e diversificazione; i governi devono coordinare politiche industriali e commerciali per proteggere settori strategici: l’Europa e gli Stati Uniti, consapevoli delle proprie vulnerabilità, stanno accelerando investimenti in suppplier alternativi e in tecnologie di riciclo. Tuttavia, la dipendenza da Pechino resta elevata e Bruxelles ha già espresso preoccupazione per la stabilità delle forniture.

La trasformazione in atto non è d’altronde solo industriale, bensì è da leggersi in ottica geopolitica, dove le terre rare non sono più una risorsa economica, ma un asset strategico

La Cina lo ha compreso e agisce di conseguenza, estendendo il controllo territoriale anche ai prodotti che contengono materiali di origine cinese, indipendentemente dal luogo di produzione: un tale approccio sistemico potrebbe generare un effetto domino, costringendo le multinazionali a rivedere le proprie catene di approvvigionamento e a ripensare il concetto stesso di globalizzazione tecnologica.

Il mondo intero deve prepararsi a una nuova era, dove la tecnologia non è solo progresso, ma anche – e soprattutto – potere.

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