Supply chain del food: una nuova spinta verso la filiera corta?

Condividi
Dopo la crescita della domanda per prodotti ‘bio’ e ‘km 0’, la pandemia potrebbe aver dato impulso ad una nuova ‘localizzazione’ della filiera alimentare

La prima ondata della pandemia di COVID-19, ammesso e non concesso che ve ne saranno altre, nel suo propagarsi in modo disomogeneo sul pianeta ha provocato diverse reazioni sul mondo della produzione e della distribuzione dei beni di prima necessità.

Ve ne sono state di natura più riflessiva, ad esempio sui punti deboli che le supply chain dei differenti settori hanno messo in mostra, ma anche di origine più impulsiva, come gli orientamenti nei confronti del consumo di quali beni e attraverso quali canali emersi nella clientela.

Nel mondo del food, in particolare nel settore frutta e verdura, c’è un’interessante osservazione da cogliere che riguarda la tendenza alla ‘localizzazione della filiera rispetto all’estrema ‘delocalizzazione’ avvenuta nei decenni passati.

Se quest’ultima è infatti stata resa necessaria dalla domanda di prodotti freschi ‘h24, di qualsiasi origine, in qualsiasi parte del mondo e a prescindere dalla stagione, già in era pre-pandemica si stava assistendo ad una rivalutazione di una filiera corta a vantaggio di produzioni più esigue ma ‘locali’.

Il COVID-19 sembra aver dato un ulteriore impulso a questa tendenza, soprattutto in Paesi che a differenza dell’Italia hanno un tessuto agro-alimentare meno permeato nella realtà locale di tutti i giorni, come gli Stati Uniti. Tuttavia alcuni spunti potrebbero riflettere una prospettiva non molto distante nel futuro anche per le metropoli italiane, con un conseguente cambio di modulazione della supply chain che si occupa di frutta e verdura fresca.

Localizzazione: cosa si intende?

Intanto bisogna capire cosa si nasconde dietro il termine ‘localizzazione: come suggerisce il termine, si tratta di una definizione, un’etichettatura che va in antitesi con quella di ‘delocalizzazione’.

Parlando di agricoltura stiamo dunque considerando quei prodotti che tra la zona geografica di origine e quella di consumo non interpongono distanze eccessive; già, ma quantificate come?

Qui interviene una sovrapposizione con il concetto di ‘km 0, noto al grande pubblico nell’ultima decade più per questioni di lifestyle e di marketing promozionale dei prodotti, che per le ragioni ben meno effimere e modaiole di tutela della biodiversità che si porta dietro.

Di fatto, se de-localizzare può essere riassunto con l’immagine dell’ananas fresco che giunge sulle nostre tavole anche in pieno inverno dall’opposto emisfero del globo, dopo un trasferimento di migliaia di chilometri, ‘localizzare’ vuole sostanzialmente dire affidarsi a prodotti regionali.

Il che non vuole dire necessariamente il pomodoro dell’orto sotto casa: di Paese in Paese infatti le normative cambiano. 

Se consideriamo il ‘km 0’, in Italia esiste una legge approvata dall’Assemblea della Camera il 17 ottobre 2018 e adesso in fase di esame al Senato, secondo la quale i «prodotti si considerano a chilometro zero o utile quando provengono da luoghi di produzione e di trasformazione della materia prima agricola (o delle materie prime agricole primarie) posti a una distanza non superiore a 70 chilometri dal luogo di vendita, dal luogo di consumo in caso di servizi di ristorazione».

Se ci spostiamo negli Stati Uniti d’America, per allargare il discorso su scala mondiale, la musica cambia: un prodotto è infatti considerato ‘regionale’ dallo United States Department of Agriculture quando la distanza tra produttore e consumatore non eccede le 400 miglia (quasi 650 km).

Filiera corta: una tendenza pre-pandemica

Di fatto i Marchi ‘bio’ e ‘km 0’, sebbene troppo spesso utilizzati impropriamente quando non illegalmente, si erano già ritagliati una nicchia di mercato in crescita negli ultimi anni. Si tratta di mercati dalle grandi potenzialità, per quanto difficilissimi da quantificare proprio per la confusione nell’etichettatura dei prodotti, solo da poco normati a termini di legge.

Le nomenclature riconducibili ad una filiera corta nell’agroalimentare sarebbero, secondo l’Osservatorio Immagino di GS1-Italy del 2018, aumentate del 12,3% nel caso di ‘filiere controllate’ e del 5,4% nel caso di ‘filiere certificate’, con volumi di vendite superiori a 125 e 48,5 milioni di euro rispettivamente.

Tuttavia si tratta di diciture poco chiare: uscendo dall’Italia e tornando agli USA, la stima del valore dei prodotti venduti direttamente dal produttore al consumatore, quindi a filiera cortissima, è attestato sul 3% del totale, stando al Congressional Research Service. Negli Stati Uniti il mix di mercato è però molto differente dal nostro, con una quota di consumo di frutta e verdura che per più di metà va a ristoranti, mense e supermercati.

Il confronto tra due nazioni tanto diverse è interessante per un motivo: in entrambe era già in atto prima della pandemia una forte tendenza alla riscoperta dei prodotti locali, conseguente ad una maggior valorizzazione della genuinità che una filiera più corta può offrire rispetto ad una che, per forza di cose, deve ricorrere alla chimica ed a sistemi di conservazione artificiale per garantire un’offerta costante.

Pandemia e filiera corta: game changer?

Qui si innesta l’effetto del COVID-19, che elargendo almeno un paio di mesi di lockdown a testa a tutti i principali Stati del mondo, ha messo in letargo forzato tutti quei sistemi di distribuzione su scala planetaria che, pur ignorandone l’esistenza, tutti noi davamo per scontati.

La chiusura dei traffici internazionali ha provocato due fenomeni paralleli: da una parte la distribuzione è stata costretta a ricorrere a fornitori più vicini alle zone di vendita per aggirare i singhiozzi delle supply chain ed i consumatori sono diventati ancora più attenti alla genuinità dei prodotti.

Una misurazione di quanto detto si ha dai dati diffusi da Coldiretti Padova, che a marzo 2020 ha registrato un incremento del 60% della richiesta di prodotti ‘km 0recapitati al consumatore in sicurezza.

Un altro fattore che gioca a favore della filiera corta è la sua agilità: una molteplicità di piccoli produttori locali risultano una fonte di approvvigionamento più flessibile e rapida di una catena a lunghissima trasmissione.

Ovviamente si deve puntare, come facevano gli antichi, su frutta e verdura di stagione, ma con netto vantaggio dal punto di vista dei metodi di coltivazione e dell’integrità dei prodotti.

Altri vantaggi emersi, ad esempio negli States, dove anche le distanze interne spesso sono notevoli rispetto alle nostre, sono relativi alla conservazione della merce, che impiega meno tempo per passare dalla raccolta alla vendita; si è invece affermata universalmente nell’opinione pubblica, con supporto di alcuni studi dei quali non conosciamo la veridicità scientifica, l’idea che nei negozi al dettaglio vi sia minor probabilità di contagiarsi che nei grandi supermercati.

La filiera ultra corta può reggere alla domanda?

Viene adesso un punto interessante, specialmente in prospettiva futura. È chiaro che una supply chain tarata sul ‘km 0’ o su una filiera regionale in zone di provincia può funzionare senza grandi problemi. In Italia, forse, questo può logisticamente continuare ad essere vero anche nella conurbazione di Milano, ma negli USA o in Cina, dove le megalopoli hanno fatto diventare la campagna un ricordo lontano?

Soprattutto, se anche il più insignificante cetriolino che farcisce ognuno degli hamburger di un fast-food dovesse diventare ‘local’, come si potrebbe soddisfare una tale domanda a ciclo continuo?

Ecco dunque che la tecnologia e la chimica – intesa in senso ‘buono’, non parliamo di OGM – tornano a farsi largo anche nella filiera corta.

Proprio negli States erano già nati negli anni scorsi alcuni progetti che rivoluzionano la supply chain dell’agroalimentare, unitamente a politiche volte al rilancio di un’economia locale.

Si tratta, ad esempio, di comunità agricole incentivate in alcuni casi dalle istituzioni locali attraverso dei programmi specifici, che coltivano prodotti in misura tale da soddisfare le esigenze di canali di distribuzione regionali, con i quali vengono stipulati degli accordi di fornitura esclusiva.

Di modelli alternativi ne esistono svariati: un altro è quello delle cosiddette ‘veggie box’, ossia delle produzioni che vengono orientate sulla base delle preferenze espresse dai consumatori e poi vendute tramite internet e sistemi di consegna a domicilio. Qualcosa di molto simile avviene da anni in molte città italiane, con orti urbani che effettuano consegne ‘su abbonamento’ di cassette di prodotti orto-frutticoli a casa o in punti di distribuzione su appuntamento.

Si tratta di fatto di un recupero del rapporto consumatore-produttore, che porta ad un innalzamento della fiducia reciproca e della sensazione di controllo sulla qualità del prodotto.

Ma per il nostro fast-food qual’è la soluzione? 

Anche se a molti faranno venire la pelle d’oca, esistono almeno due soluzioni cui sono già ricorse in tempi non sospetti alcune catene di ristorazione americane: si parla di ‘urban farms’ e ‘container farms.

Le prime sono, come dice il nome, ‘fattorie urbane’: non bisogna immaginare dei classici orti urbani, bensì delle coltivazioni a volte all’aperto, che sfruttano le superfici dei tetti dei grattacieli, e altre volte al chiuso, con sistemi idroponici basati su illuminazione artificiale e nutrienti trasmessi alla pianta dall’irrigazione e non dal terreno, ridotto al minimo indispensabile.

Ancora diverse sono le ‘container farms’, che sono veri e propri container che ospitano mini-orti e che possono essere dislocati ovunque in città, in prossimità di ristoranti che utilizzino direttamente quanto vi cresce all’interno.

Economia di scala, il vero punto debole

Il tallone d’Achille di tutte queste strategie sta sempre lì, nell’economia. Nella fattispecie, nella sua scalabilità: ridurre distanze e diversificare le produzioni, puntando sulla stagionalità ed il consumo quasi diretto ha notevoli vantaggi in termini di flessibilità in caso di lockdown mondiali o regionali e soprattutto di qualità dei prodotti ed inquinamento derivato dal loro trasporto.

Non può però competere con i margini di un’economia di scala che sfrutta intensivamente piantagioni intere in zone del mondo con costo della mano d’opera irrisorio per poi distribuirne i prodotti su tutto il globo.

È però vero che la ‘localizzazione’ della filiera rappresenta un assist verso la trasparenza, sia per quel che riguarda la produzione che i diritti dei lavoratori.

Finita, prima o poi, la paura del COVID-19 sarà determinante la memoria dei mercati, ossia quanto saremo disposti ad accettare un leggero rincaro e, forse, una minor varietà sulla tavola, in cambio di maggiori garanzie e qualità.

Ti potrebbero interessare