Il bypass da Capo di Buona Speranza sposta le rotte verso i porti del nord Europa: l’anemia dei traffici da Suez fa calare sia import che export italiani
A poco meno di un semestre dall’implosione degli equilibri in Medio Oriente, l’inaridimento dei transiti mercantili attraverso il Canale di Suez fornisce un primo storico di dati per valutarne l’impatto. Arrivano infatti dalle associazioni di settore le prime cifre su che cosa comporti lo spostamento dei traffici dalle rotte tradizionalmente consolidate a quelle che oggi devono fare il periplo dell’Africa e, una volta giunte a Gibilterra, possono optare per gli scali del nord Europa.
Una ricerca condotta da SRM (Banca Intesa) e Assoporti, oltre che negli studi di Confimprenditori e Fedespedi, la realtà acquisisce una dimensione misurabile: 154 miliardi di Euro, tanto valgono import ed export dipendenti dalle rotte container tramite Suez per l’economia italiana.
Quanto pesa il Canale di Suez sui nostri porti
Il punto sta tutto lì: la porta sul Mediterraneo da e per l’Oriente era (sarebbe) il Canale di Suez. È però chiaro che la situazione di guerra, tutt’altro che ibrida, condotta dalle milizie filo-iraniane in Yemen e nell’antistante Mar Rosso non si stia configurando come ‘passeggera’.
Il continuo scambio di colpi ai danni dei mercantili – purtroppo riusciti e con gravi conseguenze per gli equipaggi, seppur in una minoranza di casi – e addirittura con le marine militari impegnate nell’operazione Aspides, fa capire che nemmeno le corazzate fanno da deterrente.
Dunque farsi due conti in tasca è d’obbligo: il Canale di Suez è meno che a mezzo servizio, la maggior parte delle compagnie di shipping lo aggira, solo qualcuna valuta il transito delle proprie navi ‘caso per caso’.
Per l’Itala Suez vuole dire il 40% dell’import-export: importiamo dall’Asia moltissimo tessile, esportiamo alimenti, da sempre un nostro fiore all’occhiello. Le stesse merci, come apparve chiaro sin da subito, ora devono preventivare 11-15 giorni di navigazione in più, quindi costi (carburante, equipaggi, usura) più alti, assicurazioni più elevate (navigare sottocosta in Africa può voler dire incontrare i pirati), minore disponibilità delle navi stesse, del loro spazio in stiva e dei container che imbarcano – un po’ come durante il Covid.
Risultato: un domino di ritardi e di rincari nella catena logistica che, come tutti vediamo andando a far spese, si scaricano a valle, sui consumatori.
L’onda lunga sulle PMI
Questa catena di eventi coinvolge i porti, con un calo progressivo dei transiti nel Mediterraneo e un aumento nei mari del nord, ma poi anche tutto il tessuto economico che su di essi si regge.
Le cosiddette PMI, le piccole medie imprese che costituiscono l’industria italiana hanno perso, secondo Confimprenditori, cifre mostruose negli ultimi tre mesi: 3,3 miliardi in uscita per mancate o ritardate esportazioni e 5,5 miliardi di euro in entrata per mancato approvvigionamento.
Secondo l’analisi delle associazioni di settore, i problemi potrebbero essere solo all’inizio: osservando lo scenario che si sta consolidando, le PMI dello Stivale risultano già essere le più colpite di tutta Europa dalla crisi del Mar Rosso e lo si deve alla preferenza dei vettori marittimi per gli scali extra-mediterranei come Rotterdam, Anversa o Amburgo.
Da lì, poi, le merci scendono a cascata verso il sud del continente, ma impiegando ulteriore tempo, generando ulteriori costi e, a lungo andare, favorendo altri indotti che potrebbero erodere quello italiano. Il timore è questo nuovo assetto dei transiti divenga stabile, andando oltre l’emergenza del momento: un rischio vitale per gli scali del Mediterraneo, che sarebbero condannati a diventare porti di serie B nel panorama dei traffici globali.