Perché le Supply Chain etiche preservano qualità e sostenibilità

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Dazi, politiche protezionistiche, la disgregazione del multilateralismo sono tutti fattori in piena esplosione che, sotto gli occhi di tutti, stanno minando le certezza del commercio e delle Supply Chain internazionali.

In preda all’instabilità, le catene di approvvigionamento globali vedono venire meno la capacità delle imprese di garantire la propria continuità operativa e viene messa a dura prova la parola spesso data di voler migliorare non soltanto le performance finanziarie o le prestazioni nei confronti dei clienti, ma anche di impegnarsi per un ambiente di produzione distribuzione più etico e corretto. 

In uno scenario del genere, la resilienza non si costruisce solo con l’efficienza logistica, bensì con relazioni solide, trasparenti e responsabili lungo tutta la filiera.

Come emerge da una riflessione pubblicata da Korea Times, chi interpreta le difficoltà da affrontare – vedi i dazi – esclusivamente in termini economici, non vede che la strada del depauperamento qualitativo e della sicurezza ambientale e lavorativa, usando diritti e sostenibilità come superficie di sacrificio; al contrario, chi ha costruito e costruisce relazioni solide con i fornitori, chi ha una filiera trasparente e ha puntato sull’eticità per ottenere risultati, sarà più propenso a salvaguardare la qualità del lavoro, dei prodotti e il rispetto dell’ambiente.

Fiducia e pianificazione come risposta strategica

Come detto, i dazi minano le sicurezze economiche delle filiere globali e la fine della multilateralità nei rapporti geopolitici disgregano quelle legate alla stabilità dei mercati.

Dunque, una reazione improvvisata, basata solo sull’ultimo accadimento e dettata dal panico non può che portare a scelte a discapito di qualità e rispetto dei diritti; diversi grandi player stanno cercando di reagire con lungimiranza, proprio a partire dagli Stati Uniti, che i dazi li hanno imposti, ma le cui aziende e brand ne pagano immediatamente lo scotto.

Ad esempio, grandi catene della distribuzione come Walmart e Target hanno anticipato gli ordini per assorbire gli shock daziari, evitando rotture di stock nel periodo festivo, mentre il gigante dell’hi-tech Apple ha fatto arrivare 1 milione e mezzo di iPhone dall’India via cargo, grazie a una partnership rafforzata con un fornitore locale. 

Si è trattato di azioni non solo dettate dalla tattica necessaria a superare il momento, ma di dimostrazioni che la fiducia tra brand e fornitori può essere un asset strategico.

Moda e sostenibilità: un settore in ritardo

Sotto questa luce viene analizzato il settore della moda, che è uno di quelli che mostrano più deboli e vulnerabili, con una scarsa se non nulla rappresentanza alla prossima conferenza mondiale sul clima, la COP30, pur avendo un peso economico pari a oltre 3 trilioni di dollari

Secondo il Cascale Better Buying 2025 Garment Industry Scorecard, il comparto fashion ha ottenuto un punteggio solo di appena 66 su 100 in quanto a pratiche di acquisto responsabile, con cali in negoziazione dei costi, termini di pagamento e sviluppo prodotto. 

Il dato è allarmante, soprattutto considerando che sei su nove dei principali paesi produttori – Cina, Bangladesh, Vietnam, India, Turchia e Pakistan – sono stati colpiti dai nuovi dazi USA: in questi paesi si trovano gran parte delle 1800 fabbriche censite come responsabili di oltre l’80% delle emissioni del settore moda.

I dazi, se affrontati senza strategie etiche e di lunga visione, non possono che tradursi in riduzioni degli investimenti sulla sicurezza sul lavoro e sulla sostenibilità ambientale, portando nuovamente in auge problemi teoricamente o parzialmente archiviati a fatica nei decenni scorsi.

Il rischio climatico: spostare non basta

Quella che può, poi, sembrare una soluzione, ossia spostare la produzione per evitare i dazi, comporta rischi notevoli se improvvisata all’ultimo. Un esempio di come la dinamica può assumere connotazioni negative arriva dal 2018, quando i dazi contro la Cina del primo mandato Trump spinsero molte produzioni tessili verso il Vietnam, Paese meno strutturato anche normativamente e maggiormente esposto a violazioni del diritto del lavoro, causando ritardi e problemi di qualità e impatto ambientale. 

In media, servono 14 mesi per integrare i nuovi fornitori: cambiamenti rapidi senza pianificazione coordinata compromettono sia gli obiettivi climatici sia le condizioni di lavoro.

Da questo punto di vista, sebbene risposte pratiche non può fornire, la COP30 può indicare delle strade percorribili per non perdere di vista l’etica nelle Supply Chain. La moda avrà purtroppo una presenza limitata alla conferenza sul clima, come detto, ma le discussioni sulla finanza climatica e sul prezzo del carbonio potrebbero ridefinire le regole del commercio internazionale e influenzarne comunque le scelte. 

Si tratta di sviluppi che le aziende devono monitorare per allineare le proprie strategie di sourcing agli obiettivi ESG.

Verso una resilienza etica

I dazi equivalgono ad uno stress test per le supply chain.

Le aziende che si affidano solo al prezzo rischiano di perdere qualità, velocità e innovazione; al contrario, chi investe in trasparenza, previsioni condivise e termini equi costruisce relazioni resilienti, capaci di affrontare volatilità e cambiamenti climatici. 

Da ciò si deduce che le supply chain etiche non sono un lusso o un vezzo, ma un investimento strategico per il futuro.

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