Nell’attuale scenario, scosso da guerre commerciali, crisi geopolitiche e transizioni ecologiche, il reshoring – ossia il ritorno della produzione nei paesi d’origine – non è più visto solo come una strategia industriale, ma come una vera e propria risposta sistemica alle fragilità della globalizzazione.
Se, infatti, negli anni 2000 la delocalizzazione sembrava la via maestra per ridurre i costi, oggi le aziende si interrogano su come riconquistare controllo, resilienza e sostenibilità.
Tuttavia, è lecito chiedersi se il reshoring sia davvero la soluzione e come il suo approccio si differenzi tra Stati Uniti ed Europa, rappresentanti, oggi contrapposte, di quello che comunemente si identifica come Occidente.
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Le radici del ritorno: dazi, pandemia e rischio geopolitico
Negli Stati Uniti, l’ultimo ciclo di dazi – calcolati fino al 50% su beni provenienti da circa 90 paesi – ha accelerato il processo di revisione delle catene di approvvigionamento stimolata dalla pandemia di cinque anni fa.
A questo pungolo improvviso si sommano altri stimoli all’abbandono della globalizzazione classica, come l’aumento dei salari in Asia, le tensioni internazionali con la Cina e la generalizzata volontà di ridurre la dipendenza da fornitori esteri portata dalla pandemia del 2020.
La pandemia di Covid ha reso evidente quanto vulnerabili fossero – e tuttora siano – le supply chain globali, dopo che interruzioni, ritardi e carenze hanno spinto le aziende a cercare soluzioni più vicine.
Da questo punto di vista non vi è grande differenza con l’Europa, dove il reshoring è stato stimolato da fattori simili, sebbene con sfumature diverse. Nel Vecchio Continente, la guerra in Ucraina, la crisi energetica e la carenza di container hanno vessato il commercio internazionale e le imprese europee, spinte anche dalle normative ambientali e dagli obiettivi di sostenibilità, stanno rivalutando la produzione locale come leva strategica.
USA: incentivi, automazione e reshoring industriale
Negli Stati Uniti, l’intervento statale gioca un ruolo pesante e il reshoring è ultimamente sostenuto da politiche industriali aggressive.
Per esempio, il CHIPS and Science Act ha catalizzato investimenti miliardari nel settore dei semiconduttori, con progetti come quello di TSMC in Arizona ($40 miliardi) o quello di Samsung in Texas. L’Inflation Reduction Act ha invece spinto la produzione di veicoli elettrici e batterie, mentre arrivano dal Dipartimento della Difesa i finanziamenti per il ritorno di beni strategici.
L’amministrazione Trump ha rafforzato questa direzione, per la verità già intrapresa sotto l’amministrazione Biden, puntando su farmaceutica, difesa, AI e energia nucleare: il disegno di legge “One Big Beautiful Bill” ha introdotto deduzioni fiscali per i produttori, semplificato i permessi e rimosso ostacoli regolatori.
Tuttavia, il reshoring americano non affronta un cammino privo di ostacoli: la concorrenza con i data center per i siti industriali, la pressione sulla rete elettrica e la carenza di manodopera qualificata rallentano i progetti. Anche con l’automazione, servono competenze tecniche che non sempre sono disponibili, soprattutto in aree rurali.
Europa: sostenibilità, digitalizzazione e resilienza
In Europa, il reshoring è meno incentivato da sussidi diretti e più guidato da obiettivi di sostenibilità e digitalizzazione. Secondo Capgemini, oltre il 54% delle aziende europee ha ottenuto risparmi superiori al 20% grazie a tecnologie come AI, cloud e digital twin. La manifattura additiva (cioè la stampa 3D) consente produzioni locali, personalizzate e a basso impatto ambientale.
Il Regno Unito è tra i paesi più attivi: il 58% delle aziende manifatturiere ha riportato la produzione in patria, con il 90% che ha registrato benefici. Anche Italia e Francia mostrano segnali di ripresa industriale, con iniziative interregionali per favorire il reshoring.
Ma anche in Europa persistono limiti, tra i quali costi elevati, scarsità di siti industriali, vincoli ambientali e normative complesse. La transizione ecologica impone standard stringenti e non tutti i settori sono pronti a riconvertirsi.
Due modelli, una sfida comune
Il reshoring negli USA è trainato da incentivi e protezionismo, mentre in Europa è più legato alla sostenibilità e alla resilienza. Le aziende americane puntano su grandi investimenti e automazione, quelle europee su digitalizzazione e filiere corte; in entrambi i casi, il reshoring è una risposta alle fragilità della globalizzazione, ma non una panacea.
La scelta di riportare la produzione in patria dipende da molte variabili: settore, scala, competenze, infrastrutture, normative solo per citarne alcune; e se il reshoring può offrire controllo, velocità e sicurezza, richiede anche tempo, capitale e visione strategica.
Dunque non si può affermare che sia l’era del reshoring per tutti, ma per molti sì. Per alcune aziende, investire in tecnologia, formazione e collaborazione con i territori, potrà trasformare una crisi globale in un vantaggio competitivo; il reshoring non è solo un ritorno: è soprattutto una reinvenzione.