I trasporti a emissioni zero e la decarbonizzazione non si improvvisano: servono dati, test, competenze trasversali e governance per passare dal piano all’implementazione, senza perdere efficienza.
Negli ultimi anni, il dibattito sulla decarbonizzazione dei trasporti si è intensificato, spinto da una crescente pressione normativa, dalla consapevolezza dei consumatori e dagli impegni assunti dalle aziende verso obiettivi Net Zero. A livello europeo, le nuove normative come il Regolamento sulla Rendicontazione di Sostenibilità (CSRD) stanno trasformando la sostenibilità da scelta strategica a dovere operativo. In questo contesto, la transizione verso trasporti a emissioni zero rappresenta una delle leve più critiche – e più complesse – per raggiungere la neutralità climatica.
L’urgenza e il pragmatismo
Ma se le ambizioni sono chiare, la strada per realizzarle è tutt’altro che semplice. La decarbonizzazione del trasporto non si può affrontare con approcci semplificati o soluzioni universali. Richiede visione industriale, capacità di esecuzione e una solida comprensione dei trade off tra tecnologie, costi, infrastrutture e tempi di adozione.
In questo articolo non cercherò di fare l’ennesimo confronto tecnico tra BEV, idrogeno o biofuel – esistono già decine di analisi ben fatte. Proverò invece a condividere uno sguardo pratico su come affrontare davvero la transizione sul campo, in reti logistiche complesse e distribuite a livello europeo. Non una ricetta unica, ma una serie di scelte consapevoli, maturate con l’esperienza. Perché, come spesso accade nella logistica, ciò che conta non è solo cosa fare, ma come, quando e con chi lo si fa.
Il ventaglio delle tecnologie: una lettura funzionale, non ideologica
Nel dibattito sulla transizione verso trasporti a emissioni zero, è facile cadere in visioni polarizzate:
c’è chi vede nei veicoli elettrici a batteria (BEV) la soluzione definitiva, chi scommette tutto sull’idrogeno, chi invece preferisce approcci più graduali basati su biocarburanti. Ma la realtà operativa impone un approccio diverso: non si tratta di scegliere “la migliore tecnologia in assoluto”,
ma quella più adatta al contesto d’uso specifico.
Nel settore dei beni di largo consumo, dove ho avuto modo di lavorare su reti logistiche articolate e distribuite in tutta Europa, questa logica del “fit for purpose” è emersa in modo chiaro.
Le decisioni sulle tecnologie da adottare non partono da un foglio bianco, ma devono tener conto di variabili molto concrete: chilometraggi giornalieri, possibilità di ricarica o rifornimento, peso dei carichi, vincoli infrastrutturali, e – naturalmente – costi operativi e affidabilità del servizio.
- I veicoli BEV hanno dimostrato ottime prestazioni su rotte brevi e regolari, come quelle che servono i centri di distribuzione locali o i circuiti urbani. Laddove esiste una possibilità di ricarica notturna in deposito e i tragitti quotidiani rientrano in un raggio operativo compatibile con l’autonomia dei veicoli elettrici di ultima generazione, l’elettrico ha già oggi senso economico e ambientale.
- I biofuel avanzati – in particolare HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) – rappresentano una soluzione compatibile con le flotte esistenti e già adottata in diversi contesti operativi. Offrono una leva immediata per la riduzione delle emissioni, soprattutto dove elettrico e idrogeno non sono ancora praticabili.
I biocarburanti avanzati non sono marginali: nel 2024 l’Europa ha prodotto il 51 % dell’HVO mondiale,
confermando uno sviluppo strutturale della filiera. L’idrogeno, infine, è una delle soluzioni più discusse per il trasporto a lunga percorrenza, grazie al suo potenziale in termini di autonomia e rapidità di rifornimento. Tuttavia, resta oggi una tecnologia in fase esplorativa, con costi elevati e infrastrutture scarsamente diffuse. Il vero nodo è l’accesso all’idrogeno verde, cioè prodotto da fonti rinnovabili, a costi competitivi. Diversi progetti europei stanno testando veicoli a idrogeno in condizioni reali, ma su scala limitata.
Nelle decisioni aziendali che ho contribuito a guidare, la regola è stata chiara: testare in piccolo, scalare dove funziona, senza farsi guidare dalle mode tecnologiche ma dalla concretezza operativa. La tecnologia deve servire la strategia logistica, non dettarla. Tuttavia, nessuna tecnologia, per quanto promettente, può sostituire l’apprendimento che deriva dalla sperimentazione sul campo. Ecco perché vale la pena guardare a cosa accade quando si inizia davvero a cambiare.
Il caso concreto: scegliere, testare, imparare
Affrontare la decarbonizzazione dei trasporti in una grande azienda, con una rete paneuropea e centinaia di rotte quotidiane, significa entrare in un terreno dove strategia e operatività devono dialogare in modo continuo. Non si parte da zero: si parte da contratti in essere, da carrier partner, da limiti infrastrutturali e da obiettivi di servizio che non possono essere sacrificati. In questo contesto, l’approccio che si è rivelato più efficace è stato quello basato su sperimentazione graduale, selezione delle rotte pilota e collaborazione stretta con i fornitori di trasporto. Una logica di “test & learn” che permette di adattare le soluzioni alle reali condizioni operative, e non viceversa.
Tra le prime soluzioni testate con successo, l’HVO ha rappresentato un passo immediatamente attuabile, grazie alla piena compatibilità con i mezzi diesel esistenti e in grado di ridurre le emissioni di CO₂ tra il 75% e il 90%. È stata adottato soprattutto su tratte a lunga percorrenza. Il vantaggio principale dell’HVO è la sua flessibilità di implementazione, anche in forma ibrida con il gasolio tradizionale. In parallelo, in alcune aree geografiche è stato introdotto il biometano, che offre ottime prestazioni ambientali ma richiede infrastrutture dedicate e disponibilità localizzata. Anche in questo caso, la logica è stata quella del “dove ha senso, si parte”.
Per quanto riguarda l’elettrico, i primi utilizzi si sono concentrati su tratte brevi – fino a 250 Km – sia per la distribuzione diretta ai clienti sia per il navettaggio interno nei centri di distribuzione. Un esempio interessante è quello della conversione elettrica di camion diesel usati tramite retrofit, in collaborazione con startup specializzate: una soluzione circolare che consente di ridurre le emissioni e contenere i costi, estendendo la vita utile dei veicoli.
Il treno: una tecnologia a zero emissioni già disponibile
Una provocazione utile? Il veicolo elettrico a lunga percorrenza esiste già – ed è il treno. In anni recenti, abbiamo investito e continuiamo a investire nell’espansione del trasporto intermodale, proprio perché la trazione elettrica ferroviaria rappresenta una delle soluzioni più mature, affidabili e realmente “a zero emissioni dirette” disponibili oggi. Tuttavia, far funzionare l’intermodale su larga scala non è affatto scontato. Serve una collaborazione verticale tra chi produce, chi pianifica, chi movimenta e chi riceve: clienti e fornitori devono condividere previsioni, flessibilità e obiettivi ambientali, superando logiche puramente transazionali. Allo stesso tempo, è indispensabile una collaborazione orizzontale tra aziende anche concorrenti, che condividano volumi o slot per costruire flussi stabili e compatibili con i vincoli ferroviari. In quest’ottica, l’intermodalità non è solo una scelta tecnica, ma una scelta organizzativa e relazionale, che richiede investimenti anche in fiducia e sincronizzazione operativa. Dove queste condizioni si sono create, i risultati sono stati tangibili: riduzione delle emissioni, maggiore resilienza e – in alcuni casi – anche benefici economici nel medio periodo.
Tuttavia, l’elettrico non è sempre la scelta più efficiente. La sua efficacia ambientale dipende fortemente dal mix energetico nazionale: nei Paesi alimentati da fonti rinnovabili o nucleari, l’impatto ambientale è molto positivo; dove l’elettricità è ancora prodotta in larga parte da carbone o gas, il beneficio in termini di CO₂ si riduce sensibilmente. Questo rende necessaria una valutazione caso per caso, supportata da dati affidabili.
Un ruolo chiave lo stanno giocando i progetti collaborativi su scala europea, come ZEFES, che unisce produttori di veicoli, aziende di trasporto e grandi utilizzatori. L’obiettivo è testare diverse tecnologie – tra cui elettrico, idrogeno e combinazioni intermodali – in condizioni operative reali, e raccogliere dati utili per costruire modelli scalabili.
In altri casi, si stanno sperimentando modelli di cooperazione tra aziende per accelerare la transizione: consorzi settoriali orientati alla creazione di domanda stabile per nuove tecnologie, o investimenti condivisi in infrastrutture, come stazioni di ricarica dedicate ai camion.
Questo approccio “test & learn” si è rivelato essenziale: non solo ha permesso di accumulare dati affidabili e competenze operative, ma ha anche rafforzato le relazioni con i partner logistici e ha reso più credibili – internamente ed esternamente – i progressi verso gli obiettivi di sostenibilità.
La lezione chiave? Nessuna trasformazione si realizza da soli. La transizione a zero emissioni richiede un ecosistema: fornitori, clienti, enti pubblici, team tecnici e figure di leadership che sappiano tenere insieme innovazione e disciplina operativa. Ma nessuna di queste iniziative avrebbe funzionato senza una rete di persone preparate, allineate e capaci di lavorare oltre i silos funzionali. Per questo, insieme alla tecnologia, conta la qualità delle competenze e della governance che la sostiene.

Competenze, mindset e governance: il lato invisibile della transizione
Quando si parla di trasporti a emissioni zero, l’attenzione si concentra spesso su tecnologie e veicoli.
Ma nella mia esperienza, il vero fattore abilitante della transizione è molto meno visibile:
la qualità delle competenze, delle scelte organizzative e del mindset delle persone coinvolte.
Per implementare con successo nuove soluzioni di trasporto sostenibile – che siano BEV, biofuel o idrogeno – non basta avere a disposizione i mezzi. Serve una catena decisionale solida, una governance efficace e soprattutto un team interfunzionale che sappia lavorare con approccio sistemico.
Nelle aziende che ho visto funzionare meglio su questo fronte, il cambiamento non è stato gestito solo dalla logistica. È stato il frutto della collaborazione tra:
- Sustainability (per la visione strategica e il monitoraggio delle emissioni)
- Procurement (per integrare nuovi criteri nei contratti con i carrier)
- Finance (per valutare il ritorno degli investimenti green e accedere a incentivi)
- IT e data team (per la raccolta e lettura dei dati di performance ambientale)
- HR e formazione, per supportare l’upskilling delle figure tecniche e manageriali
Oltre alle competenze “hard”, ciò che conta è il mindset. L’adozione di soluzioni a emissioni zero comporta inevitabilmente un cambiamento culturale: serve pazienza, capacità di apprendere dagli errori e una leadership che sappia coniugare ambizione e realismo.
Anche la relazione con i fornitori di trasporto va ripensata: non più solo come gestione di un contratto,
ma come partnership evolutiva, in cui condividere dati, investimenti e rischi. Le aziende che hanno avuto successo nella transizione hanno saputo creare una narrativa condivisa, capace di motivare anche l’ecosistema esterno. In definitiva, la tecnologia abilita, ma sono le persone che trasformano.
Sbloccare lo zero: dal dire al fare
L’ambizione di decarbonizzare i trasporti è oggi largamente condivisa. Ma tra l’annuncio di un obiettivo Net Zero e la sua realizzazione concreta c’è una distanza che si colma solo con scelte consapevoli, capacità di esecuzione e continuità nel tempo.
Nella mia esperienza, i progetti che hanno funzionato meglio non sono partiti dalla tecnologia, ma da una domanda semplice e difficile allo stesso tempo: dove possiamo iniziare oggi, con impatto misurabile e margini di apprendimento? Da lì si costruisce una roadmap realistica, che evolve man mano che le tecnologie maturano e le condizioni esterne cambiano.
Quello che ho imparato è che non esiste una scorciatoia verso i trasporti a emissioni zero: ogni azienda deve trovare il proprio equilibrio tra ambizione e fattibilità, tra innovazione e affidabilità operativa. Ma esiste una direzione giusta, e si percorre più facilmente quando si investe nelle competenze giuste, si costruiscono partnership solide e si accetta che la transizione sarà progressiva, non perfetta. Il risultato finale non sarà solo una logistica più sostenibile, ma anche più resiliente, più moderna e più allineata alle aspettative della società. E questo, alla fine, è ciò che rende il viaggio verso lo zero non solo necessario, ma anche pienamente sensato. La buona notizia è che non dobbiamo aspettare il futuro per cominciare: possiamo iniziare già oggi, su basi concrete.
Il ventaglio delle tecnologie: una lettura funzionale, non ideologica
Nel dibattito sulla transizione verso trasporti a emissioni zero, è facile cadere in visioni polarizzate: c’è chi vede nei veicoli elettrici a batteria (BEV) la soluzione definitiva, chi scommette tutto sull’idrogeno, chi invece preferisce approcci più graduali basati su biocarburanti. Ma la realtà operativa impone un approccio diverso: non si tratta di scegliere “la migliore tecnologia in assoluto”, ma quella più adatta al contesto d’uso specifico.
Nel settore dei beni di largo consumo, dove ho avuto modo di lavorare su reti logistiche articolate e distribuite in tutta Europa, questa logica del “fit for purpose” è emersa in modo chiaro. Le decisioni sulle tecnologie da adottare non partono da un foglio bianco, ma devono tener conto di variabili molto concrete: chilometraggi giornalieri, possibilità di ricarica o rifornimento, peso dei carichi, vincoli infrastrutturali, e – naturalmente – costi operativi e affidabilità del servizio.
- I veicoli BEV hanno dimostrato ottime prestazioni su rotte brevi e regolari, come quelle che servono i centri di distribuzione locali o i circuiti urbani. Laddove esiste una possibilità di ricarica notturna in deposito e i tragitti quotidiani rientrano in un raggio operativo compatibile con l’autonomia dei veicoli elettrici di ultima generazione, l’elettrico ha già oggi senso economico e ambientale.
- I biofuel avanzati – in particolare HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) – rappresentano una soluzione compatibile con le flotte esistenti e già adottata in diversi contesti operativi. Offrono una leva immediata per la riduzione delle emissioni, soprattutto dove elettrico e idrogeno non sono ancora praticabili.
I biocarburanti avanzati non sono marginali: nel 2024 l’Europa ha prodotto il 51 % dell’HVO mondiale, confermando uno sviluppo strutturale della filiera. L’idrogeno, infine, è una delle soluzioni più discusse per il trasporto a lunga percorrenza, grazie al suo potenziale in termini di autonomia e rapidità di rifornimento. Tuttavia, resta oggi una tecnologia in fase esplorativa, con costi elevati e infrastrutture scarsamente diffuse. Il vero nodo è l’accesso all’idrogeno verde, cioè prodotto da fonti rinnovabili, a costi competitivi. Diversi progetti europei stanno testando veicoli a idrogeno in condizioni reali, ma su scala limitata.
Nelle decisioni aziendali che ho contribuito a guidare, la regola è stata chiara: testare in piccolo, scalare dove funziona, senza farsi guidare dalle mode tecnologiche ma dalla concretezza operativa. La tecnologia deve servire la strategia logistica, non dettarla. Tuttavia, nessuna tecnologia, per quanto promettente, può sostituire l’apprendimento che deriva dalla sperimentazione sul campo. Ecco perché vale la pena guardare a cosa accade quando si inizia davvero a cambiare.
Pietro D’Arpa