Ora è Brexit: la logistica deve iniziare a preoccuparsi?

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Impatto sui trasporti, libera circolazione di persone e merci, costi per le imprese: un quadro delle criticità che il voto britannico mette definitivamente in piedi

Eccola qui, la Brexit: dopo mesi di rimpalli, rinvii, avvicendamenti al numero 10 di Downing Street, la volontà degli inglesi di uscire dalla UE è confermata. Con il voto di ieri, anche il mondo della logistica, dei trasporti e dell’import-export è autorizzato a fasciarsi la testa o, per lo meno, a capire se davvero deve farlo.

Fino ad adesso la Brexit è stata più chiacchierata che altro, ma, se BoJo – come è soprannominato il biondo Boris Johnson – manterrà fede alle sue promesse, potrebbe diventare realtà già entro fine mese.

A qualsiasi prezzo, no deal compreso.

Brexit, cos’era successo fino ad adesso

La Brexit o, meglio, la prospettiva che la Gran Bretagna uscisse dall’Unione Europea, sino ad oggi effetti davvero significativi non ne aveva comportati.

Dal punto di vista della logistica, tutti i dati concordavano nell’indicare che la data del referendum del 2016 che ha deciso per l’uscita di Londra dal novero degli Stati membri non aveva realmente portato un cambiamento nel transito di merci da e verso la Gran Bretagna.

Tuttavia, specie in vista del 30 marzo scorso e, in seguito, dell’ottobre di quest’anno, ossia delle date nelle quali il governo britannico avrebbe dovuto trovare un accordo per l’uscita con Bruxelles, era innegabilmente cresciuta l’attenzione per il tema, nonché la preoccupazione delle aziende di settore.

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Qualche avvisaglia sotto l’albero

Tra un rinvio e l’altro, infatti, varie indagini avevano riportato come gli operatori del settore logistico stessero correndo ai ripari, inserendo, per esempio, “clausole Brexit” nei propri contratti con fornitori UE, in modo da tutelare il prezzo di quanto importato.

Il CIPS (Chartered Institute of Procurement & Supply), intervistando i manager italiani e britannici della catena di distribuzione, aveva già delineato un quadro che parlava così in vista dei preparativi natalizi, a fine estate 2019: l’opzione di una hard Brexit in autunno faceva stimare una sostale invarianza per il mondo dei trasporti commerciali nel 48% dei casi, mentre un restante 42%, parimenti diviso, reclamava difficoltà nell’approvvigionamento per il periodo di Natale e la necessità di importare in anticipo le merci per scampare un eventuale ricostituzione di confine e dogane.

Un non trascurabile 9% si diceva poi preoccupato di dover trovare nuovi siti di stoccaggio entro i confini britannici e l’ultimo 9% prevedeva pessimisticamente di non riuscire ad essere operativo entro la festa natalizia.

Una serie di informazioni che, adesso, potrebbero proiettarsi al periodo iniziale del 2020, nel caso in cui davvero Boris Johnson riesca ad imprimere un’accelerazione alla Brexit.

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Hard Brexit: chi e che cosa interessa

La prospettiva peggiore, per l’impatto che avrebbe sul settore logistico, è quella della cosiddetta Hard Brexit, ossia l’uscita senza accordi dalla UE.

In tal caso, l’assenza di una soluzione negoziata con Bruxelles (per altro unica soluzione percorribile al momento, dato che gli accordi bilaterali tra singoli Stati membri e la Gran Bretagna non sono ammessi), porterebbe Londra a non poter usufruire di accordi commerciali simili a quelli oggi già messi in pratica nel caso della Svizzera.

Nel caso di un’uscita “a muso duro” di Londra, a risentirne sarebbero sia i trasporti che gli scambi commerciali di beni e servizi.

ANITA, l’Associazione Nazionale Imprese Trasporti Automobilistici, stimava già in vista delle precedenti date di possibile uscita una serie di ripercussioni tangibili sulla logistica delle merci che viaggiano su strada.

Il no deal implicherebbe infatti che i trasporti stradali sottostiano al regime autorizzato CEMT, che lo scambio di merci venga normato dalle regole del WTO e, naturalmente, come si parla di limitazioni alla circolazione delle persone, anche le merci dovranno fare i conti con le redivive dogane.

A cambiare saranno poi con tutta probabilità gli stessi requisiti doganali, le regole sul cabotaggio, sul distaccamento dei lavoratori e anche su pesi e dimensioni di quanto viene importato o esportato.

Con le attuali Licenze UE, ad esempio, i viaggi dei vettori non subiscono limitazioni, cosa che, invece, accade quando si superano i confini UE.

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Italia e Brexit, due numeri nella logistica

Subito dopo il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, SACE, società per azioni del gruppo italiano Cassa Depositi e Prestiti specializzata nel settore assicurativo-finanziario, aveva stimato il potenziale danno per l’export nostrano tra i 200 ed i 500 milioni di Euro.

L’Italia ha svariati interessi all’ombra del Big Ben, quantificati in un 5% del proprio export nazionale: sono infatti ben 24 i miliardi di Euro annui che vendiamo sotto forma di beni e servizi in Gran Bretagna.

Per quello che riguarda i trasporti, il 30% dei vettori che portano merci tra Roma e Londra sono operatori di uno dei due Paesi, mentre il 70% viene effettuato da vettori di altri Paesi comunitari, un dettaglio che riguardo alle licenze sui viaggi potrebbe rendere difficile garantire lo stesso numero di viaggi compiuti oggi.

In attesa che la nebbia si dipani

La Brexit, con il voto di ieri, 12 Dicembre 2019, appare ormai confermata, resta solo da capire se Downing Street saprà e vorrà trovare un accordo con Bruxelles.

Di reali effetti conclamati ancora non se ne possono osservare e, tra le tante voci, c’è anche chi sostiene che non vi saranno ripercussioni tragiche. Dei cambiamenti sicuramente sì, anche se è presto per dire se positivi o negativi e, soprattutto, per chi.

La Gran Bretagna ha, con questo voto, confermato di non essere immune al medesimo stress che decenni di globalizzazione e di mancata assimilazione dell’unificazione europea ha portato instabilità anche in altri Paesi del Vecchio Continente.

La Brexit timonata da Boris Johnson rischia di portare Londra a ridurre le distanze con quella parte di Occidente oltreoceanico che già si è scoperta protezionista e, a modo suo, populista, sotto la guida di un altro “biondo”, Donald Trump, allargando metaforicamente la distanza tra le sponde del Canale della Manica.

Che i Britannici, malgrado la fondamentale multietnicità della loro società, soffrano da tempo l’appannamento del loro ruolo internazionale, è chiaro: se questa mossa servirà a ricostituire un impero commerciale, è presto per dirsi.

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