Biosicurezza, un’altra spina nel fianco della logistica

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Impedire il propagarsi delle zoonosi sta assumendo un ruolo primario negli scambi commerciali globali, ma comporta un aggravio in termini di tempi e costi

Le zoonosi, ossia le infezioni trasmissibili tra animali e uomo, sono sempre esistite; il Covid ha però dato un esempio di come il loro sfuggire di mano possa avere conseguenze devastanti in un mondo che si regge su collegamenti e scambi commerciali globalizzati, portando dunque il problema alla ribalta. La logistica ha in tutto ciò un ruolo fondamentale, in quanto funge involontariamente da vettore per animali, e loro derivati, infetti; attraverso il controllo della filiera logistica passa dunque il filtro che permette di isolare i casi e di interromperne la propagazione, cosa che è d’altronde prevista con apposite procedure.

Tuttavia, il 2022 ha visto l’attenzione posarsi non solo sulla pandemia che ha interessato l’umanità intera, ma anche sull’insorgere di nuove – e sul persistere di vecchie – infezioni che si diffondono grazie ai traffici globali: improvvisamente sembra che il mondo della logistica intercontinentale si sia resa conto che queste problematiche comportano pesanti ricadute sul sistema logistico.

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L’allarme in Australia

La Freight Trade Alliance australiana, organismo di punta del settore che rappresenta i broker doganali, gli spedizionieri e gli importatori, ha diramato in agosto un avvertenza proprio sulle minacce alla biosicurezza.

Il subcontinente australiano, che è prossimo all’Asia e con la quale ha scambi intensi, è uno dei più interessati in quanto prima barriera occidentale alle zoonosi importate tramite gli scambi commerciali.

In particolare, l’Australia e i suoi comprarti agricolo, dell’ambiente e della salute pubblica si sono trovati in questi mesi ad affrontare una serie di infezioni arrivate proprio attraverso il commercio di prodotti alimentari o il trasporto di animali vivi: tra queste l’afta epizootica, l’encefalite giapponese, la peste suina africana – propagatasi anche in Europa nella scorsa primavera.

 

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Il problema dei controlli

Una delle questioni sollevate dalla FTA australiana è relativa ai meccanismi di controllo ed alla struttura operativa che esse richiedono. Si tratta di un problema esportabile anche in altri contesti nazionali senza troppo sforzo di immaginazione: la valutazione delle documentazioni che accompagnano merci e animali, le eventuali ispezioni, il rilascio dei permessi richiedono personale che si rivela costantemente insufficiente per tenere il passo con il ritmo dei traffici internazionali.

Il primo problema riguarda dunque l’adeguatezza dei processi di controllo e delle forze in campo per tenere effettivamente sotto controllo le importazioni.

 

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Ritardi e costi

Come è facile intuire, tutto questo comporta una ricaduta sul sistema logistico che si traduce in tempi dilatati e costi aggiuntivi.

L’aumentare di minacce alla biosicurezza richiede più attenzione in sede doganale – nel caso europeo in entrata ai confini dell’Unione, anche se un esempio più ‘domestico’ lo si ha con il Regno Unito – con l’evidente dilatarsi dei tempi per i controlli ed il rilascio della documentazione.

In parole povere questo vuole dire che aumentano i tempi di fermo dei container, con conseguenti spese per lo stoccaggio e ritardi nella reimmissione di container vuoti nel sistema logistico.

In Australia si stima che i soli costi dovuti alla tassazione sulla detenzione dei container pesino sugli importatori per 500 milioni di dollari all’anno, motivo per il quale il governo di Canberra sta studiando una ristrutturazione completa dei processi di importazione doganale.

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