I rapporti commerciali tra Cina e Unione Europea (UE) versano in una fase storica definibile delicata, soprattutto a seguito della decisine di Bruxelles di colpire le importazioni di auto elettriche cinesi con una serie di dazi doganali.
Questa tassazione, che può variare tra il 17% e il 38%, è stata introdotta dall’UE sulla scorta di un’accusa già formulata nel recente passato dalla Commissione europea, ossia che Pechino attui una politica di dumping in favore delle proprie aziende.
La decisione finale sull’istituzione dei dazi è attesa per novembre, ma nel frattempo le aziende sono tenute a fare dei depositi di sicurezza. Chiaramente non si tratta di una mossa distensiva nei confronti dei flussi commerciali in arrivo dalla Cina ed è prevedibile che Pechino non rimanga a guardare: l’Europa importa moltissimi prodotti dalla RPC, ma ne esporta verso di essa anche tanti.
Dunque lo scenario è tutt’altro che di facile lettura.
Dazi UE: scenari e conseguenze a lungo termine
Istituire dei dazi, in un mondo che si fonda, economicamente, sulla libera circolazione delle merci, non è mai una scelta facile; non è però nemmeno una scelta che da certezza del risultato: due precedenti – l’imposizione di una tassazione anti-dumping sulle e-bike di fattura cinese importate nella UE avvenuta prima del 2020 e la ben più nota guerra commerciale portata avanti dall’Amministrazione Trump proprio a colpi di dazi – non hanno dato evidenza certa dei benefici promessi, anzi, sono state ferocemente criticate.
Sebbene siano difficili da definire, vista anche l’instabilità mondiale con la quale ci confrontiamo oggi, a lungo termine questa situazione potrebbe portare a una serie di scenari: se a novembre Bruxelles confermerà i dazi, le aziende cinesi potrebbero cercare di diversificare i loro mercati di esportazione, riducendo la propria dipendenza dall’Europa.
Una mossa che potrebbe favorire l’orizzonte dei BRICS (nei quali ha chiesto di entrare anche la Turchia) e che, sebbene vorrebbe dire, per la Cina, puntare maggiormente su mercati meno abbienti di quelli occidentali, potrebbe dare un impulso di crescita, forte di enormi numeri, a quei Paesi che, al momento, siedono al tavolo commerciale con la Federazione Russa.
Una simile situazione potrebbe a sua volta spingere le aziende europee a cercare fornitori alternativi rispetto agli storici partner asiatici, aumentando quasi inevitabilmente i costi di produzione.
Ancora diversa sarebbe la situazione in Italia, che ha ‘corteggiato’ i produttori automobilistici cinesi per stimolarne l’ingresso in pianta stabile sul territorio in risposta alla cronica mancanza di investimenti sulla nostra industria delle quattro ruote, una volta disintegratosi il golem dell’ex ‘mamma Fiat’.
Sempre in prospettiva, la Cina potrebbe rispondere a sua volta con delle contromisure, come l’imposizione di contro-dazi sull’export europeo – in questo caso la vittima predestinata sarebbero le esportazioni di carne suina, che nel mercato cinese trovano un gigantesco acquirente.
La reazione di Pechino passa anche dalle ‘terre rare’
La reazione di Pechino potrebbe, quindi, non limitarsi alle auto elettriche.
Intanto, la Cina ha già avviato una propria indagine sui dazi che la UE vorrebbe imporre e potrebbe estendere le eventuali contromisure ad altri settori. Si parla, ad esempio, di includere restrizioni sulle esportazioni di materiali critici come le terre rare, fondamentali per molte industrie tecnologiche europee. Una mossa che potrebbe avere un impatto significativo sulle catene di approvvigionamento globali.
Quella a proposito delle terre rare è definibile una ‘strategia di potere’: la Cina sta infatti utilizzando la sua posizione dominante nell’estrazione e nella produzione di terre rare come leva strategica. Si tratta di un comportamento che ha dei precedenti, come quando nel 2010 i cinesi smisero di esportare terre rare verso il Giappone in forza di una disputa territoriale sulle Isole Senkaku.
Oggi la leva è rappresentata dall’antimonio, un minerale critico per molte tecnologie e per il quale Pechino è il primo fornitore mondiale, detenendo circa il doppio della quota mineraria globale rispetto al secondo fornitore, il Tagikistan.
Di fatto, chiunque abbia bisogno di antimonio deve rivolgersi ai Cinesi, che però starebbero limitando da qualche tempo le licenze di esportazione per questo minerale, mettendo in sofferenza le industrie occidentali.
Dietro a questo comportamento c’è chi legge una prima reazione nei confronti degli svariati dazi introdotti da UE e USA contro altri prodotti, al di fuori dell’automotive, made in China.
La globalizzazione è viva e vegeta, perché ucciderla?
Una notizia nella notizia è che, nonostante le tensioni commerciali, la globalizzazione è tutt’altro che morta. Secondo il DHL Global Connectedness Report, il livello di connettività globale ha raggiunto un livello record nel 2022 ed è rimasto alto in tutto il 2023.
Ciò a dimostrazione che, nonostante gli attriti geopolitici, il commercio globale continua a essere un motore di crescita economica e prosperità.
Anzi, proprio i traffici commerciali dovrebbero essere utilizzati come volano per la stabilità e la pace, continuando ad offrire, la globalizzazione, opportunità per la crescita economica e la cooperazione internazionale.
Sarebbe quindi essenziale che gli scambi commerciali fossero utilizzati per promuovere stabilità e pace, piuttosto che per alimentare nuovi conflitti.