IoT e AI per il procurement: quanto è ampio il gap da colmare?

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Big Data ed analisi digitale sono la ‘terra promessa’ della funzione acquisti, ma rimane un forte divario tra reale ed ideale

Tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare: l’arcinoto proverbio si conferma appieno osservando la realtà della Supply Chain e di una sua particolare, ma fondamentale, funzione. Stiamo parlando del procurement e del suo management, in quanto gli acquisti sono le gambe stesse di un’azienda, specie se questa ha come core business la logistica, che vive di forniture.

I termini IoT, acronimo che sta per Internet of Things, e AI, Artificial Intelligence, sono, assieme al Machine Learning, talmente inflazionati da aver reso il dibattito sulla gestione della Supply Chain assuefatta al loro utilizzo prima ancora che per molti professionisti acquisiscano un reale peso.

Di fatto, le tecnologie digitali e le soluzioni che offrono – come IoT, AI e ML per l’appunto – sono da anni indicate come la soluzione a tutti i mali della catena di approvvigionamento, non senza eccessi entusiastici e diffidenze croniche, ma rimangono in larga parte una promessa.

Se non proprio panacea per ogni male, è ormai dato per assodato che dei miglioramenti li apportino, che la sola forza umana e che la scarsa digitalizzazione dei processi non possano più rispondere alla liquidità della Supply Chain moderna, specie con il susseguirsi di eventi globali di portata ogni volta dirompente.

Perché quindi IoT, AI e ML non sono il pane quotidiano delle aziende?

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IoT e AI: perché aiuterebbero il procurement

La ragione che rende l’uso dei Big Data – dunque, a monte, la loro raccolta e la profilatura di decisioni e clienti – ormai imprescindibile è duplice.

Al netto degli sconvolgimenti degli ultimi anni, a rendere necessaria la digitalizzazione dei processi basterebbe l’enorme volume di traffici che internet ha portato con sé, assieme ad una mutazione dei costumi dei consumatori – di riflesso, anche delle aziende – verso un’estrema flessibilità.

Pensare di mantenersi sulla cresta dell’onda con metodologie di lavoro analogiche è una sfida persa in partenza, in un mondo che i margini del profitto li calcola su un campo di gara che include l’intero globo terrestre.

A ciò si sono aggiunti i cambiamenti portati dalla pandemia, dalla crisi dei semiconduttori e dalla guerra russo-ucraina, con tutte le conseguenze di cui siamo ancora poco consci; è  ormai innegabile che il risk management abbia assunto un’importanza soverchiante per la vita di un’azienda e che solo una ricca banca dati consente di avere lo storico necessario a descrivere i possibili scenari di crisi da fronteggiare.

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La fotografia del procurement in Italia

Lo stato dell’arte è una cosa, l’adozione di queste tecnologie nella prassi lavorativa delle aziende è tutt’altra.

Il discorso, per altro, è simile anche a latitudini assai differenti, se persino negli Stati Uniti il gap appare profondo. In Italia i dati non sono confortanti: si parla di 2 aziende su 10 pronte a sfruttare un procurement digitale; questo non vuole dire soltanto aver integrato AI e IoT o raccogliere Big Data, ma anche sapersi difendere dalle minacce informatiche.

Engineering, una delle principali realtà tech italiane, indagando lo stato dei procurement manager nello stivale mette in guardia a proposito di una situazione piuttosto arretrata: «In un contesto in cui la modernizzazione deve fronteggiare una cultura tipica da piccola e media impresa, ma soprattutto fare i conti con un livello di formazione e competenza del management in materia di forniture non aggiornata e non colmabile in tempi brevi. Anche perché oggi per un moderno procurement sono indispensabili capacità predittive e di calcolo che vanno oltre le possibilità umane, ed in tal senso la via percorribile è quella di una trasformazione digitale che si realizzi perlomeno in maniera che la tecnologia non sia già sorpassata al momento della sua effettiva applicazione», è la riflessione di Fabio Zonta, Chief Procurement Officier di Engineering.

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Un problema non solo italiano

Mal comune, mezzo gaudio. Continuando con i proverbi, possiamo parzialmente consolarci constatando che nel resto del mondo non stanno facendo necessariamente meglio – ed i problemi evidenziati dalla Supply Chain globale ne sono lo specchio.

Ancora una ricerca citata da Engineering, svolta da AP/Ariba (2022) a livello internazionale racconta che appena il 38% delle aziende dispone di strumenti di lettura dei big-data, solo il 17% delle funzioni di approvvigionamento dispone di implementazioni di analisi dei dati su larga scala.

Sempre da essa si evince che a malapena il 45% delle aziende prende decisioni di spesa basate sui dati con la tecnologia e appena il 51% sta attualmente utilizzando tecnologie di machine learning o analisi basate sull’AI per analizzare i dati. Il tutto in una situazione in cui il 50% dei manager interpellati dichiara di non essere in grado di trovare rapidamente fonti di approvvigionamento alternative.

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Big Data e AI, questione di fiducia o di coraggio?

Cambiando ancora fonte e rifacendosi a Gartner, un ulteriore sondaggio internazionale rivela che il 63% delle aziende che hanno investito sull’IoT pensa di rifarsi nel giro di tre anni, come a dire che la fiducia nella possibilità di velocizzare, snellire e rendere più affidabili decisioni e processi è alta.

Tuttavia, non è raro incappare in resoconti di marca opposta: molti Chief Procurement Officier non hanno problemi a credere nella bontà delle promesse di efficienza fatte dalle nuove tecnologie, ma, di fatto, non vanno oltre una loro adozione superficiale.

Le strategie digitali vengono apprezzate per la sostituzione delle comunicazioni cartacee e per la velocizzazione delle comunicazioni, ma quando si tratta di numeri, il vecchio foglio di calcolo rimane insostituibile nelle abitudini dei più.

La realtà parla di una classe dirigente che, ad oggi e in giro per tutto il mondo, non crede possibile una vera implementazione di IoT, AI e Big Data nei processi di lavoro prima di un’altra generazione.

Per chiudere con un altro proverbio, le abitudini sono dure a morire. Anche quando arrecano potenzialmente più danno che non guadagno.

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