Probabilmente ha ragione lo storico Alessandro Barbero quando afferma che i conflitti medio-orientale tra Israele ed Hamas ed est-europeo tra Russia ed Ucraina non vanno letti necessariamente in una chiave strategica comune. Tuttavia, le conseguenze, magari non designate a priori, che portano con sé vanno in una direzione comune: minare la stabilità dei passaggi commerciali attraverso alcuni snodi cruciali per la navigazione, la principale motrice dei trasbordi intercontinentali di merci da quella immensa fabbrica del mondo che è l’Asia ai consumatori per eccellenza, Europa e Nord America.
Andando nello specifico, ogni regione del mondo è una matrioska di elementi culturali spesso in precario equilibrio, figuriamoci dunque a cosa non ha dato la stura il barbaro attacco di Hamas ad Israele del 7 ottobre scorso: basti pensare che l’ultimo dei suoi effetti collaterali è il bersagliamento a suon di droni e missili di inermi navi commerciali – portacontainer, petroliere, porta rinfuse – da parte di una milizia sciita operativa in Yiemen e fino a un mese fa sconosciuta a tutti salvo che agli analisti di geopolitica araba e mediorientali: gli Huthi.
Il bilancio attuale è di un morto tra i marittimi, almeno tre i mercantili direttamente colpiti nell’arco di due settimane, diversi gli attacchi sventati: Cosco, MSC, Maersk, CMA CGM, Hapag Lloyd si sono unite all’israeliana ZIM nel dichiarare il transito vicino alle coste yemenite e attraverso il Canale di Suez sospeso. Le conseguenze sono, chiaramente, tutte da valutare, ma purtroppo, già intuibili.
Ribelli Huthi: missili sul commercio globale
La liaison tra una milizia sciita e le portacointainer norvegesi o cinesi può non sembrare chiarissima, considerato anche che parte degli armatori (Cosco, per citarne uno) battono la stessa bandiera di quello Stato cinese che con una certa parte del mondo arabo flirta e stringe accordi; tuttavia, stando alle informazioni reperibili, è inquadrabile in una sorta di allargamento ideale della guerra Hamas-Israele.
Dietro ai ribelli Huthi pare vi siano i fili tesi dal regime iraniano, che nel conflitto sta formalmente alla finestra, senza però nascondere le proprie simpatie e antipatie: ecco, dunque, stringando ai minimi termini un’analisi che meriterebbe pagine su pagine, che quelle rotte commerciali divengono per proprietà transitiva simbolo del ‘nemico ideale’, identificato con Israele ed il suo alleato storico Washington.
In una primissima fase dell’invasione israeliana della Striscia di Gaza, gli attacchi provenienti dai franchi tiratori stanziati in Yemen avevano come obiettivo solo navi direttamente riconducibili a Tel Aviv, ma adesso il tiro non risparmia alcuna bandiera, puntando evidentemente a rendere troppo insicure le rotte del Mar Rosso e, dunque, alla paralisi di Suez.
Anche senza volerlo inserire in un ragionamento più ampio, il vero bersaglio è il commercio globale, probabilmente con tutto ciò che esso rappresenta.
La conseguenza immediata: stop ai passaggi, rotte alternative
Fermandosi sempre ai dati di fatto, costringere le grandi compagnie di navigazione ad evitare il Canale di Suez è uno strike non da poco.
A dichiarare sospesi i passaggi sono state tutte le compagnie armatrici cinesi, Cosco, Oocl ed Evergreen Marine, i colossi Maersk ed Hapag Lloyd, l’israeliana ZIM e la leader del settore marittimo MSC: in parole povere, il grosso dei vettori marittimi mondiali.
Ciò non vuol dire che si fermi il commercio, ma che rallenti forzosamente, questo sì. Lo schema lo conosciamo per altro già, in quanto basta tornare con la memoria al blocco provocato a suo tempo dalla Ever Grande proprio nello stesso canale egiziano, salvo il fatto che adesso nessuno si fermerà in rada, bensì saranno subito intraprese le rotte alternative che compiono il periplo dell’Africa, attraversando l’Oceano Indiano, doppiando Capo di Buona Speranza in Sud Africa e risalendo verso Gibilterra o la Manica.
Si tratta di una rotta pressoché obbligata, che allunga di oltre 8mila km (2500-3500 miglia nautiche) il viaggio, portando i tempi a lievitare di almeno il 30%: se una portacontainer, passando per Suez, arriva al porto di Genova da Shanghai in circa un mese, così impiegherà almeno una decina di giorni in più.
Senza contare la pirateria che infesta diversi passaggi lungo le rotte africane, il che porta comunque alla ribalta la necessità di dotare le navi di scorte militari (proprio nel Canale di Suez si sta approntando una task force che vede impegnate la marine della NATO, con un coinvolgimento anche italiano).
A proposito di rotte alternative, se l’instabilità nell’area dovesse perdurare, potrebbe fare buon gioco alla Russia, che lavora da alcuni anni per promuovere la rotta artica, che è (purtroppo, viste le implicazioni ambientali) in via di scioglimento perenne e, dunque, prevista praticabile in ogni stagione nel giro di un decennio, ma già oggi solcabile con l’ausilio delle rompighiaccio.
L’onda d’urto sul commercio e sulla navigazione globale
Premettendo che Suez vede transitare le grandi navi mercantili al ritmo di circa 50 al giorno, il che si traduce nel 12% delle merci mondiali in viaggio e del 30% del traffico container, per capire l’impatto che lo stop imposto dalle grandi sorelle della navigazione potrebbe avere occorre ricordare cosa comportarono il blocco del Canale del 2021 e la pandemia nel 2020.
Un altro dato che aiuta a dare la dimensione al problema è considerare le proporzioni degli attori in gioco: MSC e Maersk da sole rappresentano il 25% della quota mondiale del trasporto merci marittimo, CMA CGM detiene il 12,8%, Cosco il 10,8% e Hapag-Lloyd il 7%; assieme a ZIM, si spartiscono il 56% dei volumi trasportati.
Nello specifico, l’indietro tutta sul Canale di Suez colpisce, secondo le analisi di Alphaliner, il 17% del volume complessivo globale di merci che viaggia via mare.
Se le conseguenze in termini di tempo sono le prime ad essere intuibili, le secondo sono di ordine economico: più tempo, più miglia percorse, più carburante e costi di navigazione che si riversano sui prezzi dei passaggi in stiva. La prima ad evitare Suez, ZIM, per via della nazionalità israeliana, ha già portato i prezzi di nolo sulla rotta Asia-Mediterraneo dai $2.552/FEU ai $3.300-3.400/FEU, mentre Maersk mette in conto un sovrapprezzo oscillante tra i 20 e i 100 dollari per container per ‘rischi di guerra’.
Infatti, ai costi vivi dovuti al tragitto prolungato, si sommano quelli assicurativi, che in un contesto di guerra diventano assai sensibili.
In realtà, almeno sul contenimento dei prezzi potrebbe intervenire in supporto un fattore, vale a dire l’attuale sovra-capacità a disposizione delle compagnie di navigazione, motivo per cui sulle rotte globali sono state numericamente ridotte le navi in servizio; poiché tenere le stive e i container impegnati per più tempo può ‘simulare’ quanto accaduto durante la pandemia, questa volta disporre di ‘navi di backup’ – cosa impossibile nel 2020/21 – potrebbe essere importante per calmierare i costi relativi alla disponibilità di passaggi in mare, facendo comunque rimanere meno merci stoccate a terra.
L’onda lunga sui porti del Mediterraneo
Infine, va considerato l’impatto sulle nostre coste. In primis, c’è già chi fa notare che vi saranno dei colli di bottiglia, in quanto le merci attualmente in navigazione costrette a fare il giro dal Capo di Buona Speranza accumuleranno ritardo.
Tuttavia, la vera preoccupazione per gli scali italiani, soprattutto per quello che è il sistema portuale maggiormente in competizione con il Nord Europa, ossia quello ligure (La Spezia, Genova e Savona-Vado), riguarda un vecchio nervo scoperto: la disponibilità di spazi per lo stoccaggio delle merci.
A giocare un ruolo importante nell’assorbire il contraccolpo di questa ennesima crisi del trasporto marittimo, dopo le lezioni impartite dalla pandemia, sarà infatti la capacità di stoccare scorte a terra, giocando su quel surplus di produzione e sulle parziali rilocalizzazioni produttive avvenute negli ultimi anni. Per farlo serve però spazio e, qui, casca l’asino: in Italia non brilliamo per lungimiranza negli investimenti e quello che dovrebbe essere il porto punta di diamante per i container nel mediterraneo, Genova, da decenni non riceve adeguamenti infrastrutturali significativi.
Così il rischio che, ancor più che nel passato, gli hub di Le Havre, Rotterdam, Amburgo, insomma, i porti del Nord Europa, si avvantaggino per via delle monumentali opere di ampliamento eseguite nel corso degli anni è quasi scontato.
Dalla strategia degli Huthi yemeniti potremmo dunque ricavare una lezione assai domestica, sulla nostra cronica incapacità di coniugare le giuste rimostranze delle cittadinanze che devono convivere con quelle infrastrutture dal forte impatto ambientale che sono gli scali portuali con le esigenze di sviluppo della nazione, in un gioco che si muove su uno scacchiere planetario e non ammette titubanze.