Nel 2024 il ‘reso libero’ sarà una rarità: il retail inverte la tendenza

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Dopo anni di politiche estremamente aperte nei confronti dei resi, l’abuso da parte di alcuni comporta un’inversione di rotta: la gestione logistica ed i costi sono insostenibili

Fino a 27 dollari ogni 100 di spesa per gestire i resi: sarebbe più o meno questa la proporzione di cui sono costretti a farsi carico i rivenditori per gestire la mole di ‘resi pazzi’ generati dall’eCommerce.

Resi ‘pazzi’: la scelta dell’aggettivo non è casuale e tantomeno fuori luogo. Infatti a far decidere per una retromarcia collettiva su un servizio oltremodo comodo ed invogliante all’acquisto come la restituzione senza costi, utilissima in caso di veri errori di valutazione attraverso lo schermo del computer o dello smartphone, è stato il suo scellerato abuso.

Si dirà che bisogna saper stare alle regole del gioco e se i primi a smontarle sono proprio i rivenditori, il ragionamento sull’impatto sarebbe stato da fare a priori; in effetti, a ‘diseducare’ la platea dei clienti sono state proprio le politiche improntate alla spinta dell’acquisto on-line indiscriminato, in nome del ‘tanto si può sempre restituire’. Tuttavia, è anche da notare come non sia possibile, con un bacino d’utenza globale ed eterogeneo come quello di internet dare per scontato che i freni inibitori facciano il loro dovere.

E allora ecco che l’unica soluzione è il ritorno del reso a pagamento: pochi euro, per adesso, ma è tutta da verificare l’efficacia della decisione.

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I dati sui resi: una montagna di restituzioni

Citando le ricerche di Inmar Intelligence e della National Retail Federation statunitense, anche il quotidiano La Repubblica ha stilato un elenco dei marchi – tutti colossi della moda – che stanno ingranando la retromarcia nelle politiche sui resi: Amazon, Zara, H&M, J.Crew, Anthropologie, Abercrombie & Fitch.

Proprio negli States, il 17% degli acquisti online di tutto il 2022 sarebbe tornato in negozio, per un valore di 816 miliardi di dollari: cifre incredibili, che superano quelle di una manovra finanziaria o del PIL di molti Stati del ‘terzo mondo’.

Soprattutto, uno spreco immane di risorse, in quanto, anche se un reso intatto può tornare in commercio e generare nuovo profitto, esso porta con sé due-tre volte oneri e inquinamento relativi a trasporti, stoccaggio, controlli, eventuali lavaggi e packaging. Il che spiega perché il Wall Street Journal sostenga che le aziende coinvolte perdano almeno il 50% del margine sui resi.

Un mercato dei resi fraudolenti

Inoltre, dietro ai ‘resi selvaggi’ non c’è solo malcostume o vere e proprie psicopatologie dell’era social – basti pensare che, nei tempi consentiti per la restituzione gratis da parte di molti portali di fashion online, una schiera di aspiranti influencer hanno approfittato di abiti non esattamente alla loro portata per un utilizzo ‘one shot’ a favor di camera, innescando poi un meccanismo di revisione e sanificazione del prodotto per poterlo reinserire in commercio.

Ci sono anche vere e proprie frodi: NRF e Appriss Retail hanno condotto una ricerca che evidenzia come nel 2023 il 13,7% dei resi nel retail negli U.S.A. hanno rappresentato una truffa da 101 miliardi di dollari. Un’altra cifra inimmaginabile, che va tarata sui 743 miliardi di valore di tutti i resi effettuati nell’anno appena passato.

In pratica, ogni miliardo di merce venduta negli States, sono 145 milioni quelli bruciati in resi: le percentuali sono tutte a sfavore dell’eCommerce, che partorisce il 49,7% delle restituzioni effettuate presso negozi fisici e, in generale, che vede riportare il 17,6% dei propri ordini, contro il 13,3% degli acquisti in negozio.

Addio resi gratis

Il problema non è solo americano: uno dei primi Paesi a veder applicare dei ricarichi sui clienti per la restituzione degli acquisti online sbagliati è stato il Regno Unito, con il famoso marchio spagnolo della moda Zara ad addebitare per primo il minimo prezzo di 1,95 sterline.

Ma la lista è lunga: in giro per il mondo si trovano altre note firme del fashion che impongono sino a 10 dollari sui resi degli acquisti digitali, ognuno con diverse metodologie per la riconsegna, il più delle volte in partnership con società specifiche di spedizioni.

In generale, anche per quanto riguarda l’Italia, le politiche sui resi si stanno facendo più vincolate: nel nostro Paese il reso è generalmente gratuito se la riconsegna avviene presso i punti vendita della catena, avendo particolari membership o attraverso corrieri selezionati dallo stesso venditore. 

Tuttavia nel 2024 sono attesi dei ricarichi anche per i consumatori italiani, fatto salvo quanto dice il codice dei consumatori sulle rescissioni dai contratti di vendita entro i primi 14 giorni dalla stipula, ossia dall’acquisto.

Una questione sia economica che ambientale

L’irrigidimento sul trattamento dei resi porterà senz’altro a delle polemiche, anche perché un margine ragionevole per acquisti errati tramite il web dovrà pur essere lasciato.

È però altrettanto verso che un ricorso sconsiderato al reso è foriero di enormi costi ‘invisibili’, legati soprattutto allo spreco di risorse ed all’inquinamento che ciò produce in ogni sua fase – che contempla la distruzione del capo, nei casi estremi.

Infine, non va dimenticato che nessuno fa nulla per nulla, tantomeno i colossi dell’eCommerce: la gestione dei resi è evidentemente sfuggita di mano e sta divenendo un effetto collaterale che drena enormi risorse, ingolfa la catena di approvvigionamento e intasa i magazzini, riducendo i margini di guadagno; motivazione, questa, che per il vecchio Paperon dé Paperoni sarebbe stata ragione minima sufficiente a chiudere la partita.

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