Offshoring: come può ancora incidere sul futuro della logistica globale

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Peter Zelhan, analista geopolitico americano, ha recentemente ipotizzato che, a fronte del declino dei mercati della produzione e del lavoro asiatici e del crollo del commercio con la Russia, il Nord America si trovi nella posizione ideale per trarre vantaggio, ripensandone il modello, dall’offshoring dell’approvvigionamento globale […]

Peter Zelhan, analista geopolitico americano, ha recentemente ipotizzato che, a fronte del declino dei mercati della produzione e del lavoro asiatici e del crollo del commercio con la Russia, il Nord America si trovi nella posizione ideale per trarre vantaggio, ripensandone il modello, dall’offshoring dell’approvvigionamento globale.

 A supporto della sua affermazione, occorre osservare che nello scenario mondiale, hanno in buona parte perso appetibilità le scelte di delocalizzazione produttive in paesi, ad esempio, del sud est asiatico, un tempo caratterizzati da basso costo del lavoro e alta produttività.

Molte di queste scelte basate principalmente su motivazioni economiche e spinte dalla necessità o volontà di produrre a minor costo, stanno, oggi, mostrando i loro punti deboli per l’aumento dei costi delle materie prime, delle spese per i trasporti e per le politiche espansive di alcuni paesi. 

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Stanno inoltre aumentando gli oneri per la sostenibilità ambientale e sociale che sono diventati un valore, la vera sfida del nostro secolo, e non possono più essere trascurati.

La pandemia infine ha ulteriormente mostrato il limite di certe politiche di delocalizzazione quantificando, dolorosamente, cosa voglia dire la rottura di una filiera e cosa comporti in costi aggiuntivi di cui i trasporti e la logistica sono un chiaro esempio.

A tutto ciò occorre poi aggiungere il crollo del commercio con la Russia per le sanzioni poste da gran parte dai paesi occidentali nei suoi confronti a causa del conflitto con l’Ucraina. Fatto quest’ultimo che sta avendo forti ricadute sull’approvvigionamento energetico, soprattutto per i paesi europei, e sulla disponibilità di alcune materie prime come nichel, cobalto ed alluminio che rischiano di pregiudicare lo sviluppo di merceologie emergenti come le auto elettriche.

A questa, che molti definiscono la tempesta perfetta, si aggiungono i riflessi di un’inflazione che per alcuni paesi può voler dire recessione a breve termine.

Per l’insieme di questi motivi si stanno da più parti manifestando proposte di differenti modelli rappresentativi delle catene di fornitura dove la parola chiave è flessibilità e risultino più coerenti con l’attuale quadro di mercato.

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L’opportunità americana

L’ipotesi delineata da Zelhan è che il Nord America trovi più economicamente conveniente rivolgere le sue attenzioni a paesi limitrofi per ripensare la sua catena del valore in un ambito geografico meno impegnativo anche sul piano delle distanze.

Il Messico, ad esempio, ha raggiunto livelli di produttività del lavoro superiori a quelli del Canada e avrebbe bisogno di trovare partner operativi con mano d’opera a basso costo. 

I candidati più ovvii potrebbero essere Cuba e Colombia, paesi con cui non dovrebbe essere impossibile stringere accordi commerciali, certo con minori criticità di quelle presentate da Cina o Russia.

Ciò vorrebbe dire tornare ad un sistema più a misura d’uomo, con filiere locali, lavorazioni locali e con la possibilità di una maggior concentrazione sull’evoluzione dei processi, arricchiti del contributo dell’intelligenza artificiale e con la realizzazione di un livello di automazione superiore a quello attuale. 

Una catena di approvvigionamento coerente con questo modello dovrebbe avere anche caratteristiche modulari in modo da potersi adattare più rapidamente alle fluttuazioni del mercato e prevedere un numero inferiore di passaggi sfruttando la minor distanza. 

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Il “nearshoring

Similitudini, più o meno marcate, con l’ipotesi formulata relativamente al continente americano da Zelhan, si possono trovare nelle azioni recentemente intraprese da molte aziende anche europee.

L’emergenza sanitaria con i suoi lockdown oscillanti ma pur sempre restrittivi degli spazi produttivi ha in molti casi esaltato nelle supply chain il problema sia delle distanze operative che della comunicazione. A fronte di profonde trasformazioni della domanda non sempre il sistema ha potuto rispondere con la necessaria agilità e flessibilità a fronte di filiere troppo lunghe e tempi di fornitura dilatati per la mancanza di materie prime e per oggettive difficoltà di trasporto.

A dire il vero, le decisioni di reshoring, cioè di una sostanziale riallocazione delle filiere nella patria di origine, avevano già iniziato a diventare realtà ben prima della pandemia che comunque, in molti casi, ha agito da acceleratore. 

Tuttavia, accanto alla scelta di reimportare attività che, alla luce delle esperienze fatte, avevano mostrato di soffrire maggiormente il fattore distanza in termini di controllo della qualità e sicurezza delle forniture, si va facendo strada una seconda ipotesi alternativa.

Essa si configura nel cosiddetto “nearshoring” che prevede il trasferimento di alcuni processi in aree geografiche vicino al centro produttivo. E’ in pratica una forma di “regionalizzazione” della supply chain, una via di mezzo tra l’offshoring e il reshoring.

I vantaggi principali stanno nell’acquisizione di maggior agilità e velocità di reazione per restare al passo con una clientela diventata più mutevole ed esigente.

La sua applicazione consente di ridurre eventuali rischi di interruzione della filiera che ritorna ad essere più corta e migliora la tempestività delle consegne.

Essa ottimizza poi i costi logistici, fattore che nella soluzione offshoring era diventato critico, tenendo sotto controllo le singole attività della supply chain.

Per contro, occorre valutare le possibili aree di rischio ed in particolare quelle legate ai fornitori, alla loro conoscenza e capacità, nonché alla loro numerosità e distribuzione geografica per non creare fenomeni di dipendenza.

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