Ri-localizzare: l’inversione di marcia della logistica

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Prima la pandemia, il caro-energia e il caro-materie prime, adesso la guerra. La logistica deve cambiare

Un miraggio di ripresa aveva illuso tutti che i due anni di pandemia – per la verità, lasciati in coda alle preoccupazioni piuttosto frettolosamente – e i conseguenti problemi di gestione della Supply Chain fossero destinati a sfumare nel ricordo.

Tutti sappiamo che non è così: a testimoniarlo c’è una nuova ragnatela logistica ridisegnata attorno a strettoie e ritardi cronici, oltre che a prezzi per lo shipping che fanno rimpiangere quelli pre-2019.

Come se ciò non bastasse, tutto è divenuto più costoso, dalle materie prime che servono per produrre, ai carburanti che permettono alle merci di viaggiare; oltre che più cari, questi due elementi rischiano addirittura di diventare rari, non sempre disponibili.

Soprattutto adesso che sull’Europa si allunga lo spettro di una guerra come non ne si vedevano da oltre 70 anni.

Funziona ancora e può sperare di avere un futuro il modello logistico attuale? È ora che la logistica cambi e a dirlo sono gli stessi protagonisti del mondo industriale.

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Una marcia indietro per il futuro

La logistica deve invertire rotta. Detta così può sembrare un’affermazione retrograda, ma così non vuole essere. Fare ‘marcia indietro’ va inteso a proposito del meccanismo di delocalizzazione delle produzioni e delle distribuzioni ‘just-in-time’.

Lo ha detto bene in un’intervista al Sole24Ore la CEO del Gruppo Grendi, colosso dei trasporti e della logistica: contravvenendo alla riservatezza di famiglia, Costanza Musso ha infatti affermato che «la globalizzazione ha sottovalutato la centralità della logistica, portando a pensare che si potesse produrre tutto ovunque e che lo avremmo avuto in casa la mattina dopo».

Le parole della Musso sono la dimostrazione che il mondo industriale – in questo caso della filiera logistica – è ben consapevole che qualcosa nell’ingranaggio si è rotto.

L’esigenza della logistica è trasformarsi nel senso di un ammodernamento digitale, per scrollarsi di dosso quello che lei stessa definisce il ‘risultato delle inefficienze degli ultimi 20 anni’, ma anche trasformarsi in direzione di una maggior flessibilità e di uno sganciamento dalle dipendenze strutturali dal mono-fornitore.

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Ri-localizzare?

In poche parole, tornare a produrre in casa. Quella crescita (inaudita) del PIL pari al +6,5% vista nel 2021 e fortemente supportata dal Piano di ripresa e resilienza, andrà in fumo se la si lascerà in balìa delle oscillazioni sanitarie e geopolitiche.

«Non mi meraviglierei se le produzioni tronassero in Italia», dice sempre la Musso. Al di là del notare che la CEO di un grande Gruppo ritenga una soluzione il ritorno ad una produzione entro i singoli territori nazionali e regionali, va osservato che questa è la vera esigenza della logistica, resasi chiara da almeno due anni a questa parte.

Con i primi lockdown tutta la catena logistica del pianeta aveva capito che il canale unico di approvvigionamento – leggi, l’Asia, spesso identificata con un solo Paese – si stava trasformando in un cappio al collo.

Allo stesso tempo, solo finché nessun intoppo serio e duraturo entra in gioco è sostenibile un modello di distribuzione e trasporto di merci e materie prime esclusivamente focalizzato su tempi e costi.

Già da subito si sono levate voci a favore di un ritorno – inizialmente visto come ripiego per sopperire alla crisi – ad una struttura di produzione localizzata anche sui territori continentali occidentali, con una maggior diversificazione delle fonti di approvvigionamento ed una catena logistica più corta, ma più varia.

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Tempo di decisioni per la logistica 

Lo scoppio della guerra tra Russia ed Ucraina accelera tutto. Ogni considerazione che prima si sarebbe potuta analizzare in mesi, ora va metabolizzata in giorni.

Con la sensazione che la pandemia stesse allentando le spire ed una forma di ignava abitudine alle nuove condizioni imposte per le stesse operazioni che due anni fa si svolgevano più rapidamente, agilmente ed economicamente, ci stavamo adagiando nell’idea che si potesse anche continuare così, tutto sommato.

Gli eventi bellici sono la secchiata fredda che deve scuotere la logistica (e la politica) dal suo torpore: Occidente ed Oriente difficilmente torneranno nei rapporti ai quali siamo abituati, anzi, c’è da credere che gli equilibri geopolitici planetari si modificheranno.

L’Europa e l’Italia hanno una struttura dei approvvigionamento che non può essere mantenuta così com’è, soprattutto in alcuni settori. Occorre investire su sé stessi, essere meno dipendenti, tornare a produrre ma anche a rendere appetibili mestieri – vedi l’autotrasportatore – caduti in disgrazia nei gusti dei più giovani.

Occorre trovare alternative: la logistica deve iniziare a pensare lateralmente e trasversalmente ai problemi. Anche questo è un problema di libertà, sia economica che di stile di vita.

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