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USA, porti in sciopero: rischio stop per le Supply Chain globali

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Gli Stati Uniti d’America stanno affrontando uno dei ‘mostri’ più temuti dalla cultura lavorativa di una nazione che ha fatto dei miti del ‘self made man’ e della competitività un dogma: lo sciopero

Nella fattispecie, si tratta di uno sciopero che interesserà i lavoratori marittimi dei porti della East Coast e del Golfo del Messico: previsti per il primo ottobre 2024, il loro attuarsi e protrarsi potrebbe causare pesanti disservizi per le catene di approvvigionamento che si basano su quegli hub portuali, con ripercussioni e strascichi fino al 2025. 

A paventare l’ombra di una nuova ondata di colli di bottiglia per le Supply Chain globali è Xeneta, piattaforma di intelligence per il trasporto marittimo e aereo, che preconizza anche un intervento governativo come necessario per evitare gravi ricadute economiche, che però il presidente in carica Joe Biden ha già dichiarato di non voler mettere in atto.

Il motivo dello sciopero

La disputa coinvolge la United States Maritime Alliance (USMX), in qualità di negoziatrice, e l’International Longshoremen’s Association (ILA), ossia il più grande sindacato di lavoratori marittimi del Nord America: da solo, rappresenta oltre 85.000 addetti alle operazioni in banchina. 

La controversia riguarda principalmente salari e benefici per i lavoratori: attualmente, i dipendenti impiegati negli scali della costa orientale e del Golfo nei quali è presente la sigli sindacale ILA guadagnano una base salariale di 39 dollari all’ora dopo sei anni di lavoro, mentre i loro colleghi della costa occidentale guadagnano 54,85 dollari all’ora, per altro destinati a salire a 60,85 dollari entro il 2027. C’è poi una seconda questione a latere, che riguarda l’introduzione sempre maggiore dell’automazione nei porti, a discapito dei posti di lavoro.

Di fatto, le due parti si fronteggiano senza recedere dalle rispettive posizioni da giugno scorso, mentre la Casa Bianca ha ribadito di non intendere frapporsi con provvedimenti restrittivi o coercitivi, come invece richiesto da alcune associazioni imprenditoriali invocando il Taft-Hartley Act, una sorta di precettazione.

La minaccia, che pare ormai inevitabile visto lo stallo, è quella di uno sciopero ad oltranza che paralizzerebbe una buona metà delle coste statunitensi, riversando tonnellate di merci sui porti operativi della West Coast e trovando solo parzialmente sponda nei porti canadesi e messicani, anch’essi attraversati da un periodo di agitazioni sindacali.

Uno tsunami sulla logistica USA e mondiale

A meno di un accordo in extremis entro la fine di oggi, 30 settembre 2024, un totale di 36 porti si fermerà completamente: si tratta delle porte di ingresso verso l’industria e il mercato USA del 40% delle merci containerizzate, percentuale che sale al 60% se si considera l’intero traffico marittimo mercantile.

Le stime economiche suonano in modo spaventoso – JP Morgan prevede 5 miliardi di dollari in fumo per ogni giornata di sciopero – ed è inutile dire che una tale emiparesi delle coste statunitensi finirebbe per provocare un collasso della Supply Chain a stelle e strisce.

Dal momento che le difficoltà erano nell’aria, sono molte le compagnie di navigazione che hanno preparato dei ‘piani B’, ma si tratta di palliativi: Peter Sand, capo analista di Xeneta, ha dichiarato nello statement della società di analisi che le navi attualmente in navigazione, con miliardi di dollari di merci a bordo, non è realisticamente possibile che facciano tutte rotta verso la costa occidentale degli Stati Uniti. Alcune potrebbero deviare verso porti in Canada o sulla costa orientale del Messico, ma la maggior parte aspetterà semplicemente fuori dai porti interessati fino alla ripresa delle operazioni portuali, il che vuole dire avere una enorme quantità di merci, dunque di capitale, immobilizzato e rifornimenti alle industrie bloccati.

A confermare questa previsione, si possono leggere diversi comunicati da parte di società di Shipping: i carichi ormai partiti non saranno reindirizzati, mentre, a seconda della compagnia, percentuali variabili dei volumi di merci sono già da alcune settimane dirottati verso scali della West Coast. Anche qui, però, si teme un onda d’urto alla lunga poco sostenibile, con il rischio tangibile che anche questi scali rallentino le proprie operazioni perché oberati.

Alcune possibili conseguenze economiche

Se lo sciopero dovesse perdurare nel tempo, le conseguenze saranno inevitabilmente pesanti. Non solo si verificherà una congestione nei porti statunitensi e un incepparsi della logistica industriale del Paese, ma le navi bloccate in rada saranno le stesse che ritarderanno il proprio ritorno in estremo Oriente, innescando una catena di ritardi ed una nuova crisi di disponibilità di container vuoti (Covid docet). 

Tanto per dare un’idea, uno sciopero di una sola settimana basterebbe per ripercuotersi sui programmi delle navi in partenza dall’Asia verso gli Stati Uniti sino a fine dicembre e per buona parte di gennaio 2025; in caso di agitazioni prolungate, gli effetti interesserebbero progressivamente anche le tratte da e verso l’Europa, nel peggiore degli scenari. 

Le catene di approvvigionamento che si appoggiano a rotte marittime oceaniche sono già state gravemente interrotte durante il 2024 a causa del conflitto nel Mar Rosso, della siccità nel Canale di Panama e del crollo del ponte di Baltimora. Gli effetti si vedono: i dati di Xeneta mostrano che le tariffe spot medie per il trasporto dalla regione dell’estremo Oriente alla costa orientale degli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 300% tra il primo dicembre 2023 e l’inizio di luglio di quest’anno.

Adesso, non solo molti vettori marittimi hanno sospeso le prenotazioni sulle rotte per la East Coast ed il Golfo del Messico, ma è in atto un ulteriore rincaro generale delle tariffe di trasporto dei container, con una forbice impazzita che va dalle poche centinaia di dollari a tremila dollari per contenitore.

Xeneta: necessario l’intervento della Casa Bianca

Poiché quasi la metà delle merci containerizzate totali che entra negli Stati Uniti lo fa attraverso i porti della costa orientale e del Golfo, la posta in gioco non potrebbe essere più alta: paralizzare il commercio in entrata negli Stati Uniti su una scala così ampia, anche per un breve periodo di tempo, potrebbe intossicare l’economia nordamericana per buona parte del 2025 e Xeneta riporta la richiesta, da parte di 177 associazioni commerciali, di riprendere immediatamente le negoziazioni.

Sempre Peter Sand ha sottolineato che l’intervento del governo dovrebbe essere visto come un punto di forza del sistema-nazione, in quanto impedire che una disputa all’interno di un gruppo minoritario di interessi – che si tratti di lavoratori portuali o proprietari di terminal portuali – influisca significativamente sulla ricchezza dell’intera nazione è, per l’appunto, una garanzia di tenuta dell’interesse nazionale tutto.

Allargando l’ottica, il rischio che si sta correndo è di rivivere una congestione planetaria delle Supply Chain, con la rarefazione delle più disparate merci e rincari nei confronti degli utenti finali. Il tutto sulla pelle di un gruppo di lavoratori, quelli portuali, che – a torto o a ragione – vedono il far valere i propri diritti messo sul piatto della bilancia con il mantenimento in salute dell’economia stessa per cui lavorano.

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