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Camionisti, ne mancano 20mila: formarli direttamente all’estero?

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Una crisi strutturale del settore e l’impossibilità a trovare nuove leve. Prende piede la ‘soluzione tedesca’

Il dato di fatto è sotto il naso di tutti: gli italiani non ambiscono a fare i camionisti, anzi. I conducenti hanno un’età media piuttosto avanzata e quanti si avvicinano alla soglia dei cinquant’anni – uno spartiacque critico per un’attività logorante – sono tanti.

Oggi all’appello mancano circa ventimila conducenti di mezzi pesanti, a fronte di un Paese che per la logistica delle merci si affida per l’80% al trasporto su gomma: ecco dunque che le associazioni dell’autotrasporto rivalutano la ‘via tedesca’ alla risoluzione del problema, ossia la formazione direttamente all’estero di nuovi conducenti.

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Una crisi irrefrenabile 

Il vero problema è che la speranza, sebbene sia l’ultima a morire, è decisamente sfumata riguardo al possibile ricambio generazionale degli autotrasportatori italiani. Se gli over 50 sono per lo più orientati all’abbandono della professione, i giovani non la considerano del tutto.

Anita, l’associazione delle imprese di autotrasporto aderente a Confindustria, lamenta da sempre come i pur alti stipendi non attraggano più i ragazzi: le nuove generazioni a più a cuore la qualità della vita, che un fisso netto da oltre duemila euro al mese.

A far preferire settori anche precari, ma che consentono ritmi lavorativi ‘normali’, come quello del delivery, è soprattutto la prospettiva di dover vivere in trasferta nella cabina del proprio camion per 4-5 giorni alla settimana, vale a dire il tempo necessario a coprire le lunghe distanze.

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Scarso appeal e molti costi

C’è poi da dire che, se le prospettive non fanno presa sull’immaginario dei ragazzi, uno sguardo ai prezzi delle certificazioni da conseguire toglie loro ogni dubbio.

Si viaggia infatti intorno ai 5-6mila euro per patente E e carta di qualificazione del conducente: un piccolo investimento, paragonabile a quello che in altri settori si fa intraprendendo un master.

Certo, bisogna poterseli permettere: in Gran Bretagna – il problema è analogo in tutta Europa – il governo ha varato una sorta di ‘scorciatoia’ per gli inglesi che vogliono diventare camionisti, ma non possono permetterselo, stanziando dei fondi con i quali finanziare delle patenti (salvo diminuirne il monte ore rispetto allo standard europeo, il che non li farà riconoscere come autisti qualificati al di fuori dei confini patri).

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Esportare le scuole guida?

Dunque come porre rimedio alla penuria cronica di autisti, specie sulle lunghe tratte? Partendo dal presupposto che stiamo parlando di una professione di primaria importanza, data la percentuali di merci che viaggia grazie ad essa, le associazioni dell’autotrasporto si guardano intorno.

L’esempio forse più concreto è quello offerto dalla Germania, che ha deciso di ‘esportare’ le scuole guida in Paesi in via di sviluppo.

Per fare una cosa ben fatta servono degli accordi bilaterali e la garanzia di canali certificati che non diventino porte girevoli per un’immigrazione squalificata e senza controllo, ma come dimostra Berlino, si può fare.

Le scuole guida tedesche hanno trapiantato loro filiali in Paesi in via di sviluppo – come le Filippine – dove formano conducenti da inviare in Germania, strettamente vincolati all’impiego nell’autotrasporto.

I rischi di una simile operazioni sono molteplici: si può trattare di una opportunità per i cittadini di Paesi del Terzo Mondo, ma anche di una potenziale classe di lavoratori di ‘serie B’, se non tutelati ed inseriti adeguatamente nel canale lavorativo del Paese europeo.

Sarà questa la soluzione per la crisi dei conducenti nell’autotrasporto?

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