Distribuzione alimentare, un modello da ripensare

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Dagli effetti immediati della guerra in Ucraina ai cambiamenti geopolitici, dalla minor disponibilità di energia alle strozzature della Supply Chain: la distribuzione alimentare e gli esempi ignorati

A partire dalla pandemia il sistema globalizzato della Supply Chain per come lo conosciamo è entrato definitivamente in crisi. Come non è più sostenibile il modello ‘just in time’ che ha regolato la sequenza ordine-produzione-spedizione-consegna negli ultimi vent’anni, nemmeno la sempiterna disponibilità di prodotti alimentari freschi a qualsiasi latitudine e in quasi qualsiasi stagione regge più.

Serve un’alternativa, sostenibile ambientalmente, ma anche economicamente e non è detto che sia necessario guardare tanto lontano, né nel tempo, né nello spazio per trovare delle soluzioni.

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Food e Supply Chain, la situazione

È prevedibile una crisi nella crisi, in effetti in atto da anni, ma accelerata adesso dal taglio secco delle disponibilità di rinfuse solide come le granaglie: la guerra russo-ucraina, un po’ per evidenti ragioni sul suolo di Kiev, un po’ per embargo politico nei confronti di Mosca, farà del grano e di molti cerali merce rara e costosa.

Non solo: la nostra dipendenza dagli idrocarburi è agli sgoccioli e la transizione ecologica è iniziata fuori tempo massimo; risultato: non solo con i combustibili fossili andremmo avanti ancora poco, ma con la necessità di dare un segnale forte sul piano internazionale, anche quella corta coperta rischia di sparire improvvisamente.

Dunque, far viaggiare le merci fresche costerà troppo, l’uva che dal Sud Italia ‘migra’ sulle tavole danesi o olandesi sarà un bene di lusso, gli ananas e i manghi che giungono dall’America Latina potrebbero diventare proibitivi.

Parliamo poi di merce fresca, che poco si concilia con una Supply Chain che incespica e rincula continuamente per via di lockdown in Asia, di porti intasati sulla East Coast e, più banalmente, per la difficoltà a reperire un container libero.

Ecco dunque che il ‘Re nudo’ della favola ha bisogno di un vestito nuovo, e alla svelta. Giusto per non lanciare strali senza uno straccio di proposta, si potrebbe iniziare osservando alcuni buoni propositi lasciati cadere nel vuoto nel recente passato.

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Troppa inerzia contro il cambiamento

Molti dei mali per cui adesso rischiamo di piangere si può dire che ce li siamo in parte voluti. È innegabile che pandemia, prima, e crisi ucraina, poi, rappresentino due secchiate gelide in testa alle illusioni dell’Occidente e del suo sistema produttivo-distributivo.

Ci si è persi per decenni in chiacchiere sull’ecologia, le prove del cambiamento climatico sono state relegate a materia – premiata, per carità – da documentaristi e le proposte su modelli di società votati ad un maggior risparmio hanno dominato i salotti radical chic; adesso però è arrivato il fischio finale, il vicino spazientito che buca il pallone e mette la parola ‘fine’ ai giochi.

Oltretutto, il complicatissimo e stratificato scenario nel quale ci stiamo muovendo impone di colpo anche un veto al motore stesso delle nostre economie, azzoppando la disponibilità di energia. Certo, le rinnovabili non potrebbero sostituire subito e in toto l’apporto di petrolio e gas naturale, ma forse siamo rimasti indietro ed è il caso di ammetterlo.

Il problema è che finché c’è stata la possibilità di percorrere la ‘solita’ e consolidata strada, tutte le economie lo hanno fatto; ecco così che l’economia circolare è rimasta un concetto un po’ ‘frikkettone’, che il commercio equosolidale e i metodi di agricoltura bio una sorta di ‘greenwashing’ delle coscienze.

La produzione alimentare ha davanti a sé una domanda vera: senza le importazioni di granaglie – che vogliono dire anche mangimi per animali da allevamento – e con dei costi di trasporto che ne ribaltano la redditività, che alternative ha?

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L’utopia del km 0

Il rischio di inciampare nell’utopia da salotto è alta. Però vale la pena tentare. Nel recente passato abbiamo già attraversato crisi ‘epocali’, come andava di moda definirle, oggi decisamente ridimensionate su una scala più regionale o locale: perché non trarre spunto da esse? La dimensione del fenomeno non toglie validità al principio di cui è portatore.

Mi riferisco a quei casi di città che si sono sviluppate e hanno basato il loro stesso tessuto sociale – in pratica, la loro ragione d’essere – su una determinata attività industriale. Fallita quella, alcuni centri urbani sono avvizziti sin quasi a sparire, altri hanno saputo reinventarsi.

Tra questi ultimi era diventato un esempio piuttosto famoso la città statunitense di Detroit, nel Michigan: da capitale a stelle e strisce dell’automobile, sede in un sol colpo di General Motors, Ford e Chrysler, si è ritrovata ad essere una grande periferia senza sbocchi lavorativi.

Migliaia di disoccupati, chilometri e chilometri quadrati di capannoni in disuso, la morte dell’indotto legato all’industria dell’auto e la fuga del 40% della popolazione residente hanno portato al crollo delle entrate municipali, con conseguente fallimento – 20 i miliardi di dollari di debiti – e l’umiliante condizione di dover addirittura svendere il patrimonio artistico cittadino.

Cosa c’entra con la distribuzione alimentare ed il km 0?

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La rinascita di Detroit

C’entra, perché la città americana si è saputa reinventare in un modo che adesso ci viene comodo per dimostrare che si può puntare ad un’autonomia – almeno parziale – in campo alimentare.

La municipalità di Detroit ha messo infatti a disposizione dei cittadini tutti i terreni in disuso, incentivando attivamente e non solo con campagne di sensibilizzazione, perché venissero coltivati.

Per farla breve, nel 2017 la ‘defunta’ città industriale è divenuta sede di 1.400 orti urbani a gestione diretta da parte della popolazione residente, un intero quartiere (Mufi, 8mila metri quadrati di coltivazioni) è stato dedicato alla produzione alimentare e sono sorte 45 fattorie didattiche, curando così anche l’aspetto dell’educazione e della prospettiva futura della comunità.

Tradotto in soldoni, Detroit produce circa 200 tonnellate di frutta e verdura all’anno, soddisfacendo il proprio fabbisogno e rifornendo direttamente i ristoratori locali.

Ora, la storia di Detroit ha sicuramente fatto il suo tempo nei salotti, ma non è forse un esempio tangibile che laddove vi è la volontà, le soluzioni si possono trovare?

Sarebbe così improponibile la conversione delle tante aree industriali urbane per sopperire ad almeno una piccola parte dei bisogni alimentari che la catena logistica intercontinentale potrebbe non riuscire più a fornirci? Non si tratterebbe di un rilancio non solo economico, ma anche sociale ed educativo?

Non che dalla globalizzazione dobbiamo tornare alle Pólis autosufficienti, ma qualcuna delle esperienze catalogate come ‘roba da alternativi’ negli scorsi anni, ora che gli equilibri cambiano, potrebbe essere guardata con occhi più seri.

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