Il 2024 per la Logistica sarà l’anno delle Free Trade Zones contro le barriere geopolitiche?

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Zone a regime speciale incluse nelle Zone Economiche Speciali (ZES), nacquero a partire dagli anni ’60 del Novecento: negli ultimi anni il loro numero è cresciuto a gran ritmo e c’è chi le vede come un passe-partout contro le barriere economico-culturali

L’incipit del 2024 non recita esattamente quel che le aspettative di molte generazioni, dal 1945 in avanti, si sarebbero attese: ci siamo assuefatti alla presenza della guerra – quella vera, combattuta ‘a caldo’, persino ‘di trincea’ – nel continente europeo, Russia e Stati Uniti tornano a fronteggiarsi su vari scenari globali, la libera circolazione di merci e persone non è dovunque garantita, fioriscono i percorsi a ritroso nella storia, dal Medio Oriente insanguinato dal conflitto Israelo-palestinese alla rivalsa di Pechino su Taiwan.

Così, tra un assalto ad una portacontainer e l’altro nel Mar Rosso, il mondo della logistica si vede comunque in salute e proiettato verso una continua crescita, in un modo o nell’altro.

Forse, è guardando alle contraddizioni offerte globalmente dal pianeta inteso come ecosistema finanziario che a qualche commentatore sovviene l’idea che una vecchia istituzione economica, le Free Trade Zones, incarnino nello spirito del libero scambio anche quello dei sogni di libertà e di collaborazione tra mondi assai diversi, tutti accomunati dalla voglia di migliorare le reciproche condizioni.

Forse l’idea è un po’ troppo romantica e slegata da quanto poi le FTZ si portino appresso come corollario in alcune parti del mondo – dalle condizioni lavorative, ai salari, al rispetto di basilari regole ambientali o al rispetto di leggi internazionali – ma è possibile che in questo slancio amoroso nei confronti del liberismo economico qualcosa di giusto ci sia.

Stiamo forse andando verso un mondo economicamente a due velocità, che, mentre si divide come nemmeno nell’Ottocento dei nazionalismi sapeva fare, prospera a più non posso su canali paralleli?

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Il modello delle Free Trade Zones e il mondo bicefalo

In effetti l’idea che su un palcoscenico le potenze mondiali mostrino i canini e agitino i muscoli (o addirittura si facciano guerra), mentre, entro confini appropriati, commercino e stringano accordi commerciali ben si attaglia alle Free Trade Zones (FTZ).

Se, poi, uno volesse leggerle esclusivamente in chiave romantica, sì, potrebbero anche essere un baluardo di quel mondo ‘libero’ e teso al meltin’pot nel quale effettivamente credeva una buona fetta del neoliberismo economico anni Novanta.

Resta che le FTZ, come quasi tutte le cose di questa Terra, nascevano su presupposti costruttivi: all’interno delle ZES, le Zone Economiche Speciali, che già favorivano il libero scambio di merci tra nazioni differenti (il Mercato Unico Europeo è una di queste, per intenderci) sorgevano per migliorare i rapporti tra economie straniere e gettare le basi per costruire ponti e opportunità, non certo per il contrario.

Le FTZ sono piccole isole ‘a statuto speciale’, nelle quali costi logistici, barriere doganali e di comunicazione sono limati al massimo per favorire gli scambi: si tratta di aree assai prospere dal punto di vista della logistica, ma anche molto criticate per le infiltrazioni criminali cui tutto ciò fa, ovviamente, gola.

La crescita delle ZES e del loro peso sugli scambi

Fatto curioso e significativo è che il tipico contenitore delle FTZ, ossia le ZES, siano in aumento esponenziale da cinque anni a questa parte.

L’organismo ha visto la luce negli anni ’60 del Novecento, ma ha iniziato a crescere davvero dopo gli anni Ottanta, arrivando a partorire lo European Union Single Market – 500 milioni di persone interessate e un PIL generato di 13 triliardi di dollari – e il NAFTA (North America Free Trade Agreement) nel 1994 – 450 milioni di persone interessate dal mercato, scambi per 1 trilione di dollari (un miliardo di miliardi) all’anno e un PIL da 24,9 trilioni di dollari.

Nel 1992 si era costituita anche la Association of Southeast Asian Nations Free Trade Area (AFTA), per coprire un mercato da 580 milioni di persone, scambi per 1,7 miliardi di miliardi di dollari e un PIL complessivo da 1,5 triliardi di dollari.

In epoca recente l’accelerazione: nel 2019 arriva l’African Continental Free Trade Area (ACFTA) e che abbraccia 52 Stati africani, per una popolazione di 1,2 miliardi di persone, la maggiore ricompresa in una ZES e, dal 2013 in avanti, sorgono ben 12 ZES in Cina, costituendo la China Special Economic Zones.

Sulle singole aree cinesi non si hanno quantificazioni precise degli scambi, ma si tratta (è facile intuirlo dalle superfici sulle quali si estendono) di interi distretti industriali eletti a Free Trade Zone, con un’alta specializzazione.

Le ZES nel mondo sono circa 5.400: l’UNCTD (United Nations Conference on Trade and Development) ne ha contate un migliaio nuove solo negli ultimi 5 anni e ulteriori 500 sono attese nei prossimi anni.

Una prospettiva per la Logistica mondiale?

Di fatto le Free Trade Zones hanno uno scopo principale: favorire gli scambi e attrarre investimenti. Per questo chi vi guarda romanticamente le vede come una grande opportunità di crescita per le regioni che le ospitano, sia dal punto di vista delle infrastrutture, sia da quello dell’occupazione.

Senz’altro, essendo detassati e deregolamentati molti aspetti relativi alla produzione e smercio di beni, la logistica in esse ha margine di grande crescita e, soprattutto, di guadagno. Le FTZ non fioriscono, d’altronde, nei Paesi più ricchi da un bel po’ di tempo: l’Italia ne conta 4 (il porto di Trieste e il porto franco di Venezia sono le più interessanti, Livigno e Campione sono la classica zona di frontiera con minore prospettiva di crescita, se si ragiona in ottica di volano per la macro-regione), nazioni come le Filippine ben 17 con superficie quantificabile in ettari, più 8 coincidenti con porti o aeroporti. 

La Turchia ne annovera 19, la Malesia 9 come l’Egitto, l’Iran e il Bangladesh, l’Uruguay 12 pari merito con la Colombia, la Nigeria 18, il Marocco 5, tanto per dare un’idea. La crescita, da alcuni anni, è concentrata proprio nei Paesi in via di sviluppo, che attraverso la costituzione di FTZ cercano di attrarre investimenti stranieri.

Al di là delle ricadute sulle economie locali e per i singoli investitori che in esse possono costruire poli logistici altamente competitivi, l’idea che intendo esprimere è che tra Free Trade Zones si instauri una sorta di Major League degli scambi economici, bypassando qualsivoglia Ragion di Stato.

FTZ compatibili con uno sviluppo sostenibile?

Senz’altro, offrendo accordi commerciali preferenziali e tariffe ridotte, queste zone permettono anche a imprese, che da sole non ne avrebbero la forza, di accedere a mercati precedentemente inesplorati

C’è chi, in questa diversificazione, vede non solo potenziarsi la resilienza economica, ma favorirsi anche lo scambio culturale e la comprensione reciproca tra le nazioni, tornando a promuovere uno spirito di collaborazione che, adesso, integra sempre più pratiche ecologiche e misure di contenimento delle forme di inquinamento.

Insomma, le FTZ potrebbero porsi ad esempio di una crescita economica responsabile

Indubbiamente sono un canale di grande prospettiva per il mantenimento di quei volumi di scambio di cui ha bisogno l’industria globale, cui la logistica marittima e aerea, per esempio, sicuramente si rivolge. 

Bisogna però sperare che tutto ciò abbia anche una ricaduta positiva sulle aree e sulle popolazioni che interessa: connettività globale, dinamismo economico, innovazione, diversificazione commerciale, sviluppo sostenibile e scambio culturale rischiano altrimenti di essere solo slogan.

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