La Supply Chain si ripensa: rischio geopolitico e guerra fredda Cina-Usa fanno da driver

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Il clima di incertezza che interessa il paese del Dragone ed il timore di pesanti ricadute sulle forniture induce cambiamenti di rotta nelle aziende internazionali e pone in discussione la localizzazione delle catene di approvvigionamento

Sino a pochi anni fa la Cina era, a ragione, considerata il paese manifatturiero maggiormente in grado di garantire stabilità, continuità di forniture, alta capacità produttiva a basso costo.

La lezione del Covid 19 ha fortemente messo in crisi questo paradigma e aperto un ampio dibattito sulla necessità di ridurre la dipendenza dalla Cina anche alla luce di uno scenario, via via più complicato dalle crescenti tensioni con gli Stati Uniti per ribadire leadership tecnologiche e commerciali.

Senza peraltro considerare il perdurare degli effetti dovuti alle sanzioni dei paesi occidentali verso la Russia, la crisi energetica e quella economica dominata da inflazione e pericolo di recessione.

In realtà, già prima della pandemia, molte aziende avevano iniziato a valutare la possibilità di porre in atto misure per trovare soluzioni alternative alla completa dipendenza dalla Cina, alla luce degli aumenti registrati dal costo del lavoro anche nel colosso asiatico, frutto in parte degli adeguamenti normativi richiesti in materia di sicurezza e sostenibilità ambientale, ed al deterioramento delle relazioni geopolitiche soprattutto con gli Stati Uniti.

Fa parte di questa prima fase decisionale la strategia basata su approvvigionamenti e produzioni aggiuntive distaccate in altri paesi del sud est asiatico, quali Vietnam, Malesia, Tailandia, ed in India.

Non deve pertanto stupire se, in presenza di un panorama ancora più critico, l’attenzione sull’opportunità di porre in atto operazioni di nearshoring o di reshoring, dando il via al processo inverso alla delocalizzazione che ha caratterizzato in particolare gli anni Novanta, stia, ora, raggiungendo il suo massimo.

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Capacità, qualità e costi

Un recente studio condotto da Supply Chain Media e Buck Consultants International  mostra che ben il 60% delle aziende intervistate sta valutando la possibilità di riportare la sua produzione o parte di essa in Europa o negli Stati Uniti (reshoring) oppure di insediarle in regioni limitrofe (nearshoring) nei prossimi tre anni.

Operazioni che, indubbiamente, aumentano la resilienza della catena di approvvigionamento ma pongono alcune questioni.

La prima è relativa alla capacità che è difficile reperire al di fuori della Cina in volumi e costi equivalenti, soprattutto in tempi rapidi. Più facile immaginare un passaggio da siti alternativi di approvvigionamento quali Messico, Vietnam, India e Pakistan.

In questo caso però occorre tener presente che la qualità di prodotti provenienti da aziende non cinesi, che negli anni hanno assimilato determinati criteri di produzione e standard operativi, potrebbe non essere altrettanto buona.

E’ questo un rischio però che, secondo alcuni analisti, occorre correre se si desidera diversificare le località di approvvigionamento e di produzione globali.

Infine, non si deve trascurare il probabile aumento dei costi legati anche all’eventuale duplicazione delle catene di produzione e di approvvigionamento, fattori che potrebbero comportare una riconsiderazione della segmentazione aziendale per prodotto/mercato/canali di vendita decidendo di gestire hub o satelliti vicino ai mercati di commercializzazione.

Una tendenza in aumento nei prossimi anni potrebbe essere proprio quella di approvvigionamento, produzione e distribuzione concentrati in una specifica area regionale o nazionale.

 

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La guerra dei chips

Un esempio di completa riprogettazione di una supply chain è quello derivante dalla volontà degli Stati Uniti di riportare a casa molte produzioni, soprattutto a carattere tecnologico, prima tra tutte quella dei semiconduttori o chips, e possibilmente attirare in patria le produzioni straniere.

L’operazione spinta da ben tre nuove leggi corredate da ricchi budget, peraltro accusate di protezionismo, mira a impedire l’accesso dei cinesi a tecnologie avanzate quali quelle dei semiconduttori, in particolare a quelli di ultima generazione di cui detengono i brevetti, e promuovere ricerca e produzione domestica.

Uno dei primi risultati, certo di non trascurabile importanza, è la notizia che TSMC, produttore di chip taiwanese che annovera tra i suoi clienti Apple e Nvidia, ha deciso di investire 40 miliardi di dollari per costruire due siti produttivi in Arizona, negli Stati Uniti.  

Inoltre, TSMC è uno dei maggiori clienti di chip machine ASML, società olandese che controlla circa il 90% del mercato globale dei macchinari per la produzione di semiconduttori, e rifornisce altri grandi produttori di chip come Samsung e Intel.

La decisione sembra derivare dalle continue interruzioni alla catena di approvvigionamento e dalle crescenti tensioni tra Cina e USA.

Il centro ricerca e sviluppo di TSMC rimarrà a Taiwan dove, peraltro, si produce il chip a 3 nanometri, tra i più avanzati, che dovrebbe poi essere realizzato in uno dei due impianti in costruzione negli Stati Uniti.

Tutto ciò non ha contribuito a rasserenare gli animi tra le due super potenze, tanto più che gli Stati Uniti hanno recentemente vietato all’olandese ASML di vendere alle aziende cinesi i macchinari necessari alla produzione dei chip più sofisticati.

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