Missione porti: 4,5 mld di euro per collegarli al resto d’Europa

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Stanziamento record per smistare il traffico merci portuale su rotaia dal 15% al 30% entro il 2030

La cronica emergenza dei porti italiani e la loro perdita di competitività non può più essere chiusa in un qualche cassetto del ministero: l’urgenza di recuperare terreno rispetto almeno ai competitor europei – pazienza se le infrastrutture su scala mastodontica di certi Paesi asiatici rimarranno irraggiungibili – è da affrontarsi ora.

Ci sono le scadenze – 10 anni, a breve termine – ma, soprattutto, ci sono i soldi, da distribuire alle 15 Autorità di Sistema Portuale volute dall’allora ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Quello stesso Ministero oggi destina 3,5 miliardi di euro proprio ai porti perché si potenzino e ammodernino dal punto di vista infrastrutturale, più un altro miliardo  frammentato tra RFI, per aumentare loro il supporto ferroviario, il PAC-Programma Azione e Coesione e la ristrutturazione urbanistica delle città che con quei porti devono convivere.

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Recuperare il gap senza soffocare le città

I problemi da affrontare sono essenzialmente quattro: recuperare decenni di mancati investimenti sui porti per metterli al passo con gli omologhi europei, potenziare il trasporto ferroviario, inadeguato ad assorbire i volumi di merci attuali, figuriamoci quelli previsti, evitare che l’aumento di traffico si trasformi in un boomerang mortale per le città costiere e riuscire nell’impresa minimizzando l’impatto ambientale, se non addirittura migliorandolo rispetto all’attuale.

Il gioco si compie dunque su un duplice fronte, legato a doppio filo: potenziare lo spostamento di merci e persone migliorando le infrastrutture e la qualità di vita urbana.

Per fare ciò il trasporto intermodale è primario e si deve puntare ad innalzare quella soglia asfittica del 15% di merci che oggi viaggiano su rotaia: un primo impegno con la UE c’è e parla di un raddoppio entro il 2030.

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Un sistema da rendere coeso

Il sistema portuale e infrastrutturale italiano è, ovviamente, un sistema complesso che attualmente paga una sfilacciatura al suo interno: il metodo voluto dal ministro delle Infrastrutture Giovannini punta a renderlo più coeso, da Nord a Sud.

Sulle ferrovie si rimanda al piano di investimenti e di opere su scala europea Ten-T, per i corridoi veloci, che si completa con i 337 milioni direttamente conferiti a RFI per costruire un’adeguata rete di supporto nel retroscalo dei porti italiani, in modo da collegare le 15 Autorità portuali in un unico ecosistema di scambi fatto di 11 porti e 9 centri intermodali.

All’unisono dovranno dare i loro frutti anche i 300 milioni riservati alle Zone Economiche Speciali del Sud Italia, il cui scopo è non solo quello di sbarcare e reimbarcare merci in modo efficiente, ma anche di lavorarle in velocità e con qualità.

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I quattro assi tematici

A fare da collante sui territori si aggiunge il PAC o Programma Azione e Coesione Infrastrutture e Reti, cui vanno 470 milioni di euro e che prevede un piano congiunto di interventi.

Gli assi tematici che individua sono 4: si va dall’accessibilità turistica dei porti all’elettrificazione delle banchine con energia da fonti rinnovabili, passando per la digitalizzazione della logistica ed il recupero dei waterfront.

Molti di questi sforzi si concentreranno sul Sud, che negli anni ha patito un notevole abbandono (Brindisi, Gioia Tauro, Taranto, Augusta gli scali principalmente interessati), ma non trascura il Nord, con Ravenna e Vado Ligure e Genova.

È una scommessa a lungo termine che lo stesso ministro Giovannini, parlando dalle pagine di Affari&Finanza di Repubblica, ha definito un vero e proprio ‘piano Marshall’ per i porti italiani, introducendo una nuova visione di porto come di una piattaforma logistica intermodale.

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