Movimentazione e porti: in attesa dello tsunami cinese

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Con la fine del lockdown a Shanghai si teme un ennesimo terremoto nella logistica

Qualcuno si spinge a dire che sarà «peggio di Wuhan» riferendosi alle conseguenze che avrà il lockdown duro indetto dalle autorità cinesi nella città di Shanghai sulla Supply Chain mondiale.

In effetti, le cifre fanno spavento: 25 milioni di persone costrette in casa per 18 giorni, il più grande terminal container del mondo e l’aeroporto dai quali transita il 7,2% del volume complessivo di import-export cinese paralizzati bastano a far intuire la portata del problema che si profila all’orizzonte.

Anzi, no: perché gli standard cinesi sul controllo dell’infezione lasciano presagire una road map di allentamento delle misure restrittive che si compirà a giugno inoltrato. Ciò vuol dire che agli attuali ritardi e alle attuali congestioni vanno sommati altri due mesi o quasi di logistica a singhiozzo.

L’onda lunga è attesa nei porti occidentali, ma ne esiste anche una di ritorno verso gli stessi produttori asiatici.

 

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Il blocco cinese: sarà il più catastrofico?

Per capire cosa stia succedendo a migliaia di chilometri da noi, per altro discretamente distratti dal fronte caldo della guerra in Europa, bisogna riepilogare la situazione.

A marzo il governo di Pechino ha dichiarato il lockdown a Shanghai, megalopoli da 25 milioni di abitanti (la seconda al mondo), protraendo per 18 giorni il divieto assoluto di uscire di casa, come si fece in Italia solo nel marzo 2020.

In Aprile si sono aggiunti al lockdown altri centri, come quello produttivo di Guangzhou, quello specializzato nell’elettronica di Kunshan e Taincang, nella provincia di Jiangsu.

Dalian, Tianjin, Ningbo, Xiamen e Dongguan sono altre città nei dintorni di Shanghai coinvolte dalla nuova ondata di Covid-19.

Per i lavoratori che necessariamente devono recarsi al lavoro – come i camionisti ed i gruisti che operano nelle infrastrutture logistiche – sono richiesti tamponi negativi validi 24 ore e permessi speciali in base all’attività.

Quello di Shanghai è il più grande porto container del mondo e consta di un doppio porto, uno fluviale ed uno marittimo (Yangshan), entrambi i più grandi del loro genere; a ciò si aggiunge l’aeroporto, lo Shanghai Pudong, uno dei maggiori per traffici cargo, la cui congestione si sta riversando a sua volta sui limitrofi scali regionali, come Zhengzhou, Xiamen, Shenzhen e Beijing; cosa simile avviene per i porti, con Ningbo, Hong Kong e Shenzen progressivamente in crisi per riflesso.

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Ritardi inauditi

Nella pratica, la gestione drastica della pandemia in Cina ha portato ad una congestione totale delle infrastrutture di Shanghai e dell’area circostante.

A livello portuale, dopo una sola settimana i volumi erano calati del 30%, con centinaia di migliaia di navi costrette a rimanere ancorate in rada per almeno una settimana prima di veder accordato il permesso ad attraccare.

L’operatività ridotta del porto di Shanghai non gli consente di smaltire i container né in entrata, né in uscita e il problema non è da poco se si considera che da Shanghai passa il 20% dell’export via container dell’intera Cina.

I camion non sono messi meglio: mentre le merci si affastellano all’interno del mastodontico scalo, i mezzi pesanti in servizio (circa 1 su 10) fanno code anche di 40 ore, a seconda del Gate. Le tempistiche per il picking della merce in stiva oscilla tra i tre ed i cinque giorni.

A ciò si somma l’overbooking dei magazzini, specialmente quelli per lo stoccaggio di merci deperibili o speciali: nelle piazzole di alimentazione per i veicoli refrigerati non c’è più spazio e sono sospese le prenotazioni per materiali infiammabili da stoccare per l’imbarco.

 

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Conseguenze regionali e non: lo tsunami

La prima conseguenza è stata la cancellazione delle disponibilità, sia per gli attracchi, sia per gli imbarchi, sia per i voli cargo.

Si parla infatti di una riduzione dei servizi dedicati alle spedizioni commerciali pari all’80% e la maggior parte delle compagnie di navigazione e aeree ha preferito ridurre a sua volta le prenotazioni (così ha fatto Maersk) e dirottare parte dei propri vettori su altri scali.

I volumi sono però enormi e la congestione si sta estendendo, come un’onda, anche ai terminal scelti in seconda battuta.

Qui viene la domanda più che lecita: cosa accadrà quando verrà ‘tolto il tappo’?

Nel momento in cui vi sarà una ripresa, purtroppo non sarà graduale. Non potrà esserlo per via dell’accumulo gigantesco di navi e container a premere sulle infrastrutture cinesi, sia in entrata che in uscita.

A metà aprile i volumi oceanici di container risultano in calo del 15% e gli scambi tra la East Coast statunitense e l’Asia giù del 7%, ma non sono le uniche conseguenze.

I tempi di consegna tra Europa-USA e Asia risultano triplicati, mentre il ‘ritorno’ di questa paralisi risale la corrente anche al contrario: gran parte dell’industria tessile asiatica è di stanza in Vietnam e Cambogia, che stanno entrando in sofferenza in quanto dipendono dal mono-fornitore Cina e lo stesso vale per l’industria farmaceutica indiana, che riceve il 70% delle materie prime sempre da Pechino.

Il vero contraccolpo deve però ancora arrivare: quando i traffici riprenderanno, si sbloccheranno una quantità tale di navi e container da travolgere la capacità degli scali occidentali, sia europei che americani, di ricevere merci.

Può sembrare una prospettiva catastrofista e speriamo vivamente di sbagliarci: ma i segnali lasciano presagire che in estate la Supply Chain potrebbe affrontare un nuovo periodo di sofferenza estrema, replicando quanto già vissuto con i ritardi successivi alla prima ondata di Covid nel mondo, solo in un contesto geopolitico assai diverso.

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