USA-Cina, la pandemia trasforma i dazi in un boomerang

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Tra i ‘fiori all’occhiello’ della politica trumpiana, gli esperti bollano oggi la sua guerra dei dazi sulle esportazioni un fallimento

Tutta la Supply Chain mondiale soffre, la crisi delle materie prime si fa sentire in tutto il globo, l’Europa è stritolata fra prezzi dell’energia e la frattura interna sul fronte Brexit e sull’economia globale avanza lo spettro della recessione.

Guardando dall’esterno la situazione e recuperando una forma di lucidità nella lettura degli avvenimenti, iniziano a delinearsi gli effetti a lungo termine non soltanto della pandemia, ma anche di scelte politiche non sempre lungimiranti.

È il caso della ‘guerra dei dazi’ voluta dall’Amministrazione Trump sulle importazioni cinesi, che ha generato un accordo con Pechino sulle soglie minime di esportazioni di prodotti Made in USA che il colosso asiatico avrebbe dovuto acquistare.

Il condizionale è d’obbligo, perché poco o nulla è realmente cambiato nei rapporti commerciali tra le due superpotenze, con un paradossale effetto boomerang sulle produzioni americane dovuto da una serie di imprevisti, non ultima la pandemia.

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I dazi di Trump: oggi strozzano l’America 

Il paradosso è proprio questo, la politica economica di Trump sull’import-export con la Cina ha favorito in definitiva proprio Pechino.

La critica arriva dagli States stessi, ed una delle tante voci è quella del Peterson Institute for International Economics: la ‘vittoria’ di Trump, tanto sbandierata nel 2019, ossia l’aver costretto Pechino a firmare un accordo da 200 miliardi di dollari l’anno in acquisti di esportazioni a stelle e strisce, si sarebbe rivelata la più classica delle ‘vittorie di Pirro’.

Il Dipartimento del Commercio USA ha infatti calcolato che appena il 57% delle soglie pattuite è stato effettivamente acquistato dai cinesi nel biennio 2020-21, fermandosi ad una quota complessiva di esportazioni persino più bassa di quella precedente all’entrata in vigore dell’accordo.

La stima è impietosa: le perdite per le esportazioni statunitensi ammonterebbero ad un buon 19% rispetto ai livelli ante 2019.

 

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Dazi sull’import, scelta miope

L’accordo, preceduto da una feroce guerra dei dazi doganali, peraltro imitata dalla UE inseguendo la pia illusione di limitare l’invasione dei mercati europei di prodotti cinesi a basso costo, prevedeva l’impegno da parte della Cina ad acquistare esportazioni Made in USA per un valore di 200 miliardi dollari l’anno.

L’intesa riguardava specifici settori merceologici ed industriali, quali l’automotive, l’aeronautico e l’agricolo.

L’insieme di norme ha avuto, sì, dei lati positivi, in particolare nell’abbattere delle barriere tecnologiche e tecniche imposte sul mercato di scambio agricolo, che ha visto i produttori americani di soia recuperare quanto perso a causa dei dazi reciproci tra i due Paesi, con il raggiungimento di oltre l’80% delle soglie di esportazione previste.

L’agricoltura rappresentava però appena il 14% del valore commerciale dell’operazione e negli altri settori a ‘pagare dazio’ sono stati gli USA.

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Strategia a breve termine

Il perché del fallimento – che oggi paralizza ancor più le produzioni americane e alimenta l’inflazione stessa – è riassumibile in due punti: la scelta politica dell’allora inquilino della Casa Bianca era stata improntata al ‘mordi e fuggi’, ossia all’ottenere un risultato immediato spendibile in termini elettorali ma non sul lungo termine, ed il verificarsi di una serie di imprevisti.

Ora, il primo punto è innegabilmente responsabilità di Trump e del suo entourage, che ha preferito focalizzarsi su un aspetto parziale ma di immediata resa – l’aumento delle esportazioni – senza affrontare il problema strutturale, ossia quello dei dazi reciprocamente imposti tra i due Paesi.

Paradossalmente, l’obiettivo di Trump era recuperare il deficit di esportazioni verso l’Oriente accumulato a partire dal 2017, il suo primo anni di mandato alla Casa Bianca, crollate del 14% proprio per lo scontro a suon di tassazioni tra Pechino e Washington.

Detto questo, l’altra ‘colpa’ addossata all’istrionico Donald è quella di aver compiuto una mossa azzardata, lasciandosi le spalle scoperte in casa di eventuali ‘eventi avversi’.

La sorte ha voluto che queste ‘avversità’ si siano verificate, mostrando subito la debolezza della ‘Phase 1’ dell’accordo tra America e Cina.

 

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Un assist alla crisi della Supply Chain

Per prima cosa, non esiste una sostanziale modo per obbligare la Cina a rispettare l’accordo; se, infatti, la strategia americana si basava sulla stretta della tassazione in fase di importazione, la pandemia ha soverchiato ogni regola, esponendo in piena luce la dipendenza dell’industria USA – e non solo – da quella cinese.

Di fatto, la rarefazione dei collegamenti, i singhiozzi della catena di distribuzione, l’aumento della domanda interna agli USA (come all’Europa), non hanno fatto che mettere la Cina su di un piedistallo.

Siamo d’accordo che la pandemia sia un evento più che mai imprevedibile, ma in un loop negativo l’America ci si era già infilata da prima. Due fatti avevano cambiato le carte in tavola senza bisogno di interventi da parte del virus: la prima reazione cinese al braccio di ferro americano aveva colpito duramente l’export dell’industria automobilistica statunitense, che per salvare pelle e fatturati aveva repentinamente spostato la produzione al di fuori dei confini USA. Fatta la legge, trovato l’inganno, si direbbe da noi.

Poi ci sono stati gli incidenti occorsi ai nuovi modelli Boeing 737 MAX, con seguente stop alla produzione, messa a terra delle flotte già in servizio ed un danno economico e di immagine non da poco.

Automotive ed aeronautico rappresentano la massa critica di quei 200 miliardi di esportazioni ‘garantite’ verso l’Asia e nel 2019 partivano già azzoppate per motivi eccezionali, ma forse prevedibili da un pool di strateghi come quelli che cui si aspetta di trovare alla guida di una nazione come gli Stati Uniti d’America.

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Recessione: un fuoco che arde in casa

A tutto ciò si sono sommati i danni portati al sistema logistico dalla pandemia: la sola congestione sul fronte interno, che perdura negli States – oggi alimentata anche da poco chiare frammistioni con il fronte no-vax e con quel movimento che portò all’assalto a Capitol Hill – ha fatto ‘scappare’ i vettori dello shipping verso l’Asia, drenando la disponibilità di container per via dei margini di redditività imparagonabilmente più elevati.

Se consideriamo che sia la circolazione di merci che di persone – quindi il settore terziario – è stata messa a durissima prova dalle restrizioni anti-Covid-19, troviamo un ulteriore voce di perdita per l’economia USA.

Infine, oltre un quarto delle esportazioni americane verso l’Oriente non sono state prese in considerazione dall’accordo a firma Trump, lasciandole in un limbo privo di alcun incentivo che le rendesse appetibili sul mercato cinese.

Il problema, in definitiva, è che la mossa del precedente governo a stelle e strisce si sta rivelando come un errore in prospettiva storica; l’inspiegabile catastrofe pare starsi configurando però adesso, con l’immobilismo dell’Amministrazione Biden nei confronti di quegli stessi dazi: il permanere dell’accordo e di soglie non rispettate (il 40% della. produzione americana loro destinata non ha mai preso la via della Cina) e difficilmente rispettabili, sta alimentando la recessione attuale.

Un problema che, inevitabilmente, dagli States si riversa su tutta la Supply Chain mondiale e sull’economia occidentale.

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