Il contrasto al riscaldamento globale rappresenta uno dei punti fondamentali dell’Accordo di Parigi, primo accordo universale e vincolante a livello mondiale.
Il suo obiettivo primario, condiviso da tutti i 195 stati firmatari è quello di contenere a lungo termine l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2°C oltre i livelli preindustriali e di limitare tale incremento a 1,5°C.
L’accordo di fatto agisce come una “legge quadro” che per essere implementata ha bisogno di norme attuative. Perciò è necessario il contributo di tutti, soprattutto di quei settori che esercitano una maggiore azione inquinante e detengono quote importanti delle emissioni globali di gas ad effetto serra.
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In questo contesto, il trasporto marittimo, pur contribuendo in maniera più limitata al volume degli inquinanti rispetto ad altre forme di trasporto (ad esempio stradale o aereo) è comunque una fonte significativa di emissioni di gas serra che causano danni all’ambiente.
Per darne una misura, basti pensare che, limitandoci alla sola Europa, secondo stime della European Federation for Transport and Environment (T&E), ogni anno il trasporto via mare contribuisce all’inquinamento di CO2 con una quota pari al 3,1% delle emissioni totali.
Su base mondiale, il settore marittimo rappresenta circa il 3% delle emissioni di CO2 globali, (dato ICS) e costituisce pertanto un nodo importante nella realizzazione di una efficace strategia di contrasto al riscaldamento globale ed al raggiungimento degli obiettivi di Parigi.
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La frattura tra gli Stati
L’IMO, International Maritime Organization, agenzia specializzata delle Nazioni Unite responsabile per la sicurezza e la prevenzione dell’inquinamento marino e atmosferico da parte delle navi, ha fin dal 2018 stabilito una strategia da seguire per abbattere i gas serra che prevede, tra gli obiettivi a breve termine, la riduzione dell’intensità di carbonio di tutte le navi del 40% entro il 2030 rispetto ai valori 2008.
Essa però, alla prova dei fatti, si è rivelata troppo debole e poco convincente ed ha finito per perdersi in dettagli e misure tecniche senza affrontare i temi concreti richiesti dall’importanza dell’obiettivo.
I contrasti tra gli stati sono infatti apparsi evidenti nelle riunioni che si sono svolte in questi ultimi giorni (20-24 marzo 2023) che hanno coinvolto i paesi membri dell’IMO e che avrebbero dovuto confermare o rivedere la strategia proposta.
Sebbene la maggioranza delle nazioni presenti abbia riconfermato l’adesione piena agli obiettivi dell’accordo di Parigi, un gruppo di paesi formata da Cina, Russia, Arabia Saudita, Argentina e Brasile ha espresso il suo dissenso.
La delusione è stata ampia come ha testimoniato anche la International Chamber of Shipping (ICS) che raccoglie l’80% delle associazioni che rappresentano il traffico merci marittimo mondiale a cui recentemente ha aderito la China Shipowners’ Association, associazione armatoriale della Repubblica Popolare Cinese.
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Le reazioni
Oltre alle prese di posizione di ICS che già nel passato aveva richiamato l’attenzione sulla necessità di mettere a punto una strategia adeguata e renderla operativa, va registrata l’azione di Clean Shipping Coalition, organizzazione ambientalista che ha uno status consultivo presso l’IMO.
Negli anni scorsi la sua posizione era stata molto critica nei confronti della lentezza dei negoziati e aveva espresso preoccupazione per la mancanza di progressi, attribuendo all’associazione delle Nazioni Unite la responsabilità di aver fissato una strategia non adeguata e aver, conseguentemente, portato a cinque anni di sostanziale inattività.
Oggi alza le sue richieste chiedendo di dimezzare le emissioni entro il 2030 e azzerarle entro il 2040.
In particolare, si richiama l’attenzione sulla gravità della situazione climatica mondiale dove la differenza di mezzo grado ha enormi ripercussioni sull’ambiente e spettri come quello della siccità non sono più eventi solo da racconti di fantascienza ma purtroppo realtà ampiamente prevedibili in assenza di interventi drastici.
L’appello è, in particolare, ai paesi virtuosi come gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito e l’Unione europea affinché facciano opera di convinzione sui paesi cosiddetti “ostili”.