L’ormai certo ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha suscitato reazioni contrastanti: nessuno si sbilancia, ma, in Europa come in Asia, tutti cercano di soppesare eventuali pro e contro in attesa di verificare quanto delle ‘promesse’ elettorali verrà mantenuto.
Le spinte protezionistiche e le promesse di deregulation espresse in campagna elettorale potrebbero avere un effetto non solo nel commercio domestico o nelle relazioni, USA-UE e USA-Cina, ma anche, a catena, su tutti i mercati internazionali, dunque sulle industrie e sulla logistica globale.
Al di là della prova dei fatti, per la quale occorrerà pazientare diversi mesi, se non anni, è importante monitorare il meccanismo delle tariffe applicate alle importazioni di beni di consumo negli States e come questo sia interconnesso con il commercio internazionale. Leggere la situazione è fondamentale anche per le nostre industrie, considerati i tassi di esportazione verso gli States delle produzioni italiane in determinati settori.
Commercio, produzione e logistica
La prima cosa ad impensierire i mercati occidentali sono le annunciate politiche protezionistiche, che vedono nell’imposizione di dazi importanti – nel peggiore dei casi con una logica ‘orizzontale’ – sulle importazioni, la realizzazione più evidente. Essi avrebbero un impatto significativo sul commercio internazionale: dazi del 10-20% su tutte le importazioni, a prescindere dalla provenienza, e fino al 60% sui beni Made in China, aumenterebbero automaticamente i costi per le aziende che esportano negli Stati Uniti – che sono decisamente tante, dato che Washington è praticamente un importatore seriale. La paura non è solo di chi la frontiera la deve varcare in entrata: internamente, i consumatori americani temono di subire un boomerang commerciale per via del probabile aumento dei prezzi; la conseguenza potrebbe, a sua volta, essere il raffreddamento della domanda e dei volumi di importazione.
Attraverso le tariffe doganali, è stato promesso il sostegno all’industria manifatturiera americana, cui è stato contestualmente garantita una sostanziale deregolamentazione. Si tratta di un altro aspetto delle possibili decisioni trumpiane che avrebbe delle ripercussioni sul mondo al di fuori dei confini statunitensi: le industrie farmaceutiche, automobilistiche e chimiche europee, su tutte, sono particolarmente esposte a queste politiche, poiché rappresentano una parte significativa delle esportazioni del Vecchio Continente verso gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’energia, sono state promesse forniture a basso costo agli americani, puntando ad un aumento della produzione di petrolio e di gas, facendo regredire le regolamentazioni imposte negli ultimi decenni, come quelle che limitano il ricorso alla pratica del fracking. Anche la riapertura di questo mercato energetico legato alle fonti fossili minaccia di avere un impatto negativo sulle compagnie europee di energie rinnovabili, come già successo in passato.
Tuttavia, gli esperti statunitensi e la stampa americana ritengono improbabile che si arrivi all’abrogazione dell’Inflation Reduction Act di Biden, che prevede investimenti significativi nelle energie rinnovabili.
C’è inoltre chi teme che queste politiche possano provocare costi operativi più elevati per le aziende di trasporto marittimo e aereo. Se i dazi dovessero raffreddare le esportazioni verso le coste degli States, a risentirne sarebbero anche i porti europei e italiani, che potrebbero vedere una diminuzione del traffico commerciale verso gli Stati Uniti.
Tariffe e merci in entrata negli Stati Uniti: come funzionano
A proposito delle tariffe sulle merci in ingresso negli States, è interessante comprendere quale sia il reale meccanismo nel quale i rincari andrebbero ad innestarsi.
Da un certo punto di vista, infatti, si fa presto a dire che ‘aumenteranno i dazi’: essi, però fanno parte di un sistema complesso e interfacciato non solo con i mercati interni americani. Le tariffe applicate alle merci importate negli Stati Uniti non sono infatti semplicemente ‘imposte’ dall’alto, ma sono calcolate sulla base della Harmonized Tariff Schedule (HTS).
Questo sistema, basato sul Sistema Armonizzato internazionale, assegna a ogni prodotto un codice specifico che determina la tariffa applicabile, che è pesata sulla base del valore dichiarato delle merci al punto di importazione al netto di costi aggiuntivi come lavoro, marketing e logistica. Si tratta di un meccanismo che mira non solo a generare entrate per il governo, ma anche a proteggere l’industria nazionale dalla concorrenza sleale.
Gli effetti delle tariffe
Le tariffe hanno inevitabilmente un impatto sul mercato interno, in quanto aumentano il costo di importazione delle merci: com’è intuibile, spesso questi costi aggiuntivi sono direttamente scaricati sui consumatori finali sotto forma di prezzi più alti con l’effetto possibile di innescare un calo della domanda di beni importati.
Anche le imprese, in uno scenario di limitazione drastica delle importazioni, potrebbero vedere aumentare i loro costi di produzione a causa delle tariffe su materiali e componenti non prodotti in casa, riducendo così la loro competitività sui mercati globali e aumentando comunque i prezzi per i consumatori americani.
Gli effetti sui mercati internazionali
Guardando all’esterno degli USA, una delle paure più fondate è che si scatenino delle guerre commerciali, come già visto tra Cina e USA nel 2016, con la piccola differenza che gli equilibri geopolitici oggi sono ben più fragili: proprio l’utilizzo indiscriminato di dazi doganali possono innescare ritorsioni da parte dei paesi colpiti, portando a forti irrigidimenti anche sul piano diplomatico. Questa logica “occhio per occhio” porta ad una distorsione dei mercati, aumenta i costi per le imprese e i consumatori, e fomenta incertezza economica a livello globale. Da non sottovalutare, in questi termini, anche la debolezza nelle relazioni commerciali internazionali che ne scaturirebbe, generando ostacoli alla collaborazione e all’innovazione.
Le tariffe possono condizionare i mercati per esempio indirizzando le aziende a cercare fornitori con tariffe più favorevoli anziché puntare su efficienza e innovazione, portando ad un’allocazione sub-ottimale delle risorse globali.
Sempre secondo questa logica potremmo assistere ad una migrazione delle catene di approvvigionamento, in quanto le aziende potrebbero decidere di spostare la produzione e l’approvvigionamento verso paesi con tariffe più basse o con accordi commerciali più favorevoli, come Messico o Vietnam; un cambiamento che, però, richiede tempo e risorse, e comporta rischi legati alla stabilità e affidabilità dei nuovi fornitori.