Da un problema globale, una leva strategica: lo spreco alimentare è una delle sfide più urgenti e trasversali della filiera agroalimentare, con circa un terzo del cibo prodotto che viene perso o sprecato ogni anno nel mondo.
Si tratta di una stortura del sistema distributivo che non solo ha impatti ambientali e sociali, ma rappresenta anche un costo economico significativo per le imprese.
Considerata l’attuale società, nella quale la sostenibilità è diventata un criterio competitivo, la gestione trasparente dei rifiuti alimentari si configura come un’opportunità strategica per rafforzare la Supply Chain.
USA vs UE: dimensioni e differenze
Mettendo a confronto i due colossi dell’Occidente, emerge che negli Stati Uniti lo spreco alimentare raggiunge circa 91 kg pro capite all’anno e che la maggior parte di questi rifiuti proviene dal consumo domestico e dalla distribuzione, mentre in Europa la media è di 70 kg pro capite, con l’Italia che si attesta a 28,9 kg grazie a una riduzione del 18,7% rispetto al 2024.
Nonostante il passo avanti compiuto, il valore economico dello spreco in Italia è stimato in 22 miliardi di euro annui: gli italiani, infatti, viaggiando su una media più alta dei cugini europei, terminano l’anno con un bilancio che oscilla da anni intorno ai 100 kg di spreco alimentare domestico a testa, dato condiviso da TooGoodToGo e dall’Osservatorio Waste Watcher International. Di fatto, è come se ognuno di noi pagasse una tassa di poco inferiore ai 400 euro annui inconsapevolmente.
Qualcosa negli anni si è fatto, considerando che i dati 2022 di Eurostat parlavano di più di 59 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari nella UE, vale a dire 132 chilogrammi di cibo per abitante all’anno, il 54% di derivazione domestica (72 kg). Il resto è imputabile alla filiera: tolti gli sprechi nella ristorazione, l’19% si genera nella fabbricazione di prodotti finiti, l’8% dalla vendita al dettaglio e dalla distribuzione, un altro 8% dalla produzione.
La differenza tra USA e UE però non è solo quantitativa, ma anche normativa. Negli Stati Uniti, la gestione dei rifiuti alimentari è regolata a livello statale, con iniziative come il California Organic Waste Law (SB 1383), che impone la riduzione del 75% dei rifiuti organici entro il 2025 e la donazione del 20% del cibo invenduto. In Europa, la Direttiva UE 2025/40 e la proposta di regolamento sulla riduzione dei rifiuti alimentari fissano obiettivi vincolanti: -10% nella produzione e trasformazione, -30% pro capite nella distribuzione, ristorazione e famiglie entro il 2030.
Normative e obblighi per le imprese
Per quanto riguarda il panorama dell’Italia, le aziende del settore food devono adeguarsi al Regolamento UE 2025/40, che impone l’eliminazione degli imballaggi monouso in plastica per ortofrutta inferiori a 1,5 kg dal 2030, l’etichettatura ambientale obbligatoria entro agosto 2028, la tracciabilità dei materiali e la responsabilità estesa del produttore (EPR).
Negli USA, oltre alle normative statali, cresce la pressione da parte di investitori e stakeholder per la rendicontazione ESG: le aziende sono sempre più chiamate a documentare i flussi di rifiuti, adottare strategie di deviazione (compostaggio, digestione anaerobica, donazioni) e garantire la distruzione sicura dei prodotti ritirati.
Perché conviene una filiera trasparente
Una gestione trasparente dei rifiuti alimentari consente di ridurre i costi operativi (smaltimento, trasporto, acquisto), di prevenire rischi reputazionali e legali (prodotti richiamati, audit ambientali), di migliorare l’efficienza logistica (monitoraggio degli sprechi, ottimizzazione degli stock) e di accedere a incentivi fiscali e finanziamenti legati alla sostenibilità.
Inoltre, l’integrazione dei dati sui rifiuti nei sistemi di reporting aziendale favorisce decisioni più informate e una maggiore resilienza della Supply Chain. Trattare lo spreco come un output misurabile e tracciabile permette di anticipare le normative e rafforzare la credibilità aziendale.
Verso il 2030: obiettivi e responsabilità
Bruxelles ha fissato obiettivi ambiziosi per il 2030, ma la loro realizzazione dipende dalla capacità delle imprese di innovare i propri processi.
La Supply Chain del food, per sua natura dinamica e interconnessa, può diventare un laboratorio di buone pratiche, dove investire in tecnologie di tracciabilità, soluzioni di economia circolare e partnership con enti del terzo settore non è solo etico, ma anche conveniente.