Troppi sprechi dalla produzione alla distribuzione: gli USA producono 78 milioni di tonnellate di cibo che non viene consumato, la UE 59 milioni
La Supply Chain alimentare è un settore complesso e interconnesso che affronta moltissimi step, partendo dalla produzione per arrivare sino alla distribuzione. Per quanto si cerchi di evitarne, lungo questa catena si verificano sprechi significativi: secondo un rapporto di McKinsey & Co., “Reducing food loss: What grocery retailers and manufacturers can do” (“Ridurre lo spreco di cibo: cosa possono fare i rivenditori e i produttori di alimenti”), si stima infatti che tra il 30% e il 40% del cibo prodotto non arrivi mai ai consumatori.
La dimensione del problema
Nello specifico, il mercato preso in considerazione è quello statunitense, industria con un giro d’affari da 1 trilione di dollari, traducibile nella difficilmente immaginabile cifra di un miliardo di miliardi. Si tratta, in ogni caso, di una delle industrie più prolifiche del Paese a stelle e strisce, come d’altronde in Europa, dove, nel 2021, l’industria alimentare vantava un fatturato aggregato di circa 200 milioni di euro ed un valore del commercio ad essa legato di ulteriori 300 milioni di euro (dato del 2020).
Tornando agli States, nel 2023 sono state 88,7 milioni le tonnellate di cibo invendute o non consumate, circa il 38% dell’offerta alimentare totale del paese. La maggior parte di questo – quasi 78 milioni di tonnellate di merci commestibili – è diventata spreco alimentare, nel senso che non è rientrata nella catena di fornitura alimentare destinata agli uomini.
Secondo alcune fonti, come la rivista Food Engineering, ai consumatori statunitensi viene fatto notare di sprecare fino al 37% del cibo immesso nella catena di fornitura americana.
Non che al di qua dell’oceano vada meglio: il 2020 ha visto sprecare nella UE quasi 59 tonnellate di alimenti – qualcosa come 131 kg pro capite – equivalenti al 10% di tutto il cibo fornito a ristoranti, vendita al dettaglio e privati.
Dove avvengono gli sprechi?
Non esiste un solo, vero, punto debole della Supply Chain del food sul quale scaricare l’intera colpa. Gli sprechi avvengono in maniera diffusa lungo tutte le fasi della catena di fornitura, dalla produzione alla distribuzione.
Un esempio citato nel rapporto McKinsey traccia la perdita di pomodori coltivati in campo dalla fattoria al rivenditore. Su una base di 100 pomodori pronti per il raccolto, quasi un quarto va perso: solo una quota compresa tra le 59 e le 72 unità arrivano infatti al rivenditore.
Questo avviene man mano che la catena sgrana le sue fasi di lavorazione: dei primi 100 pomodori pronti per il raccolto, solo 73-81 superano indenni l’operazione di raccolta stessa. Successivamente, uno o due vengono persi nelle fasi di manipolazione e classificazione. Dopo, circa 67-77 pomodori sono ancora integri e passano alla lavorazione e all’imballaggio. Infine, nella migliore delle ipotesi, sono 72 i pomodori che arrivano al rivenditore, nella peggiore solo 59.
Possibili soluzioni
La ricerca di McKinsey ha individuato quattro aree sulle quali intervenire, che potrebbero aiutare a ridurre a monte una perdita che oscilla tra il 50% ed il 70%: si tratta di azioni volte a minimizzare la perdita di produzione e lavorazione, la perdita durante i transiti, a vendere una parte maggiore di ciò che viene prodotto e lavorato, e a prevenire strutturalmente le perdite.
La gestione dell’inventario nel magazzino può fare la differenza: sapere dove si trovano i prodotti, in che stato sono e quali altre merci vengono stoccate intorno a loro è importante.
Una precisa gestione dell’inventario può aiutare a prevenire il deterioramento dei prodotti deperibili, che devono necessariamente uscire in un certo momento.
Anche deviare le merci laddove ve n’è più bisogno può aiutare: se un negozio di alimentari ha aspettative molto alte sulle consegne e parte dei prodotti non dovesse soddisfare i requisiti di qualità, (ad esempio, prodotti dall’aspetto non impeccabile), il cibo non attraente ma ancora commestibile può essere deviato verso rifugi alimentari o altre organizzazioni in modo che possa essere donato a chi ne ha bisogno.
Una questione etica ed economica
Ridurre la perdita di cibo lungo la catena di fornitura alimentare non è solo una questione di etica o di sostenibilità ambientale; è anche una questione di efficienza economica: nessuno vuole fare affidamento ed investire su di un processo che dissipa strutturalmente il 30%-40% di quanto viene prodotto.
Dalla riduzione di questa immane quota di sprechi possono derivare delle riflessioni sulla redditività stessa della filiera, che nelle proteste dei suoi addetti ha più volte fatto emergere come, a fronte di molto lavoro ed investimenti non da poco per la sua modernizzazione, il ritorno sia risicato.
In qualche modo, oggi, tutte le perdite del sistema produttivo e della Supply Chain vengono assorbite dalla filiera stessa.
Tutto, dalle piccole modifiche fino al cambio di fornitori e venditori, può fare la differenza, sia per aumentare il fatturato, sia per raggiungere più persone che di quel cibo hanno realmente bisogno.