Il Covid-19 non ha messo in crisi solo i sistemi sanitari di tutto il mondo, salvo eccezioni più uniche che rare. Al di fuori dell’ambito sanitario ha fatto scoprire a tutti che la coperta è assai corta nel mondo delle catene di fornitura; e se nella prima fase il contraccolpo pareva l’effetto di un inevitabile domino innescato dai lockdown in Asia e dal singhiozzare dei trasporti intercontinentali, adesso la questione si rivela sistemica.
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In questi giorni sono infatti a casa, in cassa integrazione, gli operai FCA dello stabilimento di Melfi, non per carenza di domanda o per ragioni sanitarie, bensì per l’assenza di forniture: a mancare sono infatti i semiconduttori – in poche parole, i microchip.
Di fatto sono in buona compagnia, perché il problema affligge il comparto automotive di tutto i pianeta, dal Giappone alla Germania, ma la causa è paradossale: c’è troppa domanda.
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Semiconduttori: tutti li vogliono
I cosiddetti ‘wafer’, come gli addetti ai lavori chiamano le minuscole piastrine, per lo più composte da silicio, che tutti conosciamo come ‘microchip’ sono ormai ovunque.
Dagli smartphone ai laptop, dagli smartwatch alle e-bike, alle autovetture, appunto.
Di fatto, l’esplosione dei device portatili e non che ricorrono ad un computer di bordo o che possono connettersi alla rete internet ha portato ad un utilizzo imprescindibile dei microchip, che sono prodotti in numeri enormi.
Talmente enormi da non risultare sostenibili.
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Chi ne fa le spese: l’industria dell’auto
Sentire che Toyota, Mercedes, Peugeot ed FCA – e non sono le uniche – decidono di ridurre la produzione, addirittura ridimensionandone i numeri su base annua, quindi non provvisoriamente, fa un discreto effetto.
Si tratta di una strategia in controtendenza con il modello economico al quale siamo stati educati negli ultimi decenni, ossia quello di un continuo ricambio dei prodotti, il che presuppone volumi di produzione sempre alti.
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Ora l’auto rischia di essere la prima a fare marcia indietro e perché le manca forse uno dei componenti più piccoli di tutti, il famigerato immancabile microchip.
Perché proprio il settore automotive è presto detto: la produzione mondiale di microchip, dovendo scegliere, ha privilegiato la domanda da parte dell’industria hi-tech, che corrisponde a smartphone, tablet e laptop.
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Alla radice, problemi già sentiti
Perché è così difficile ottenere dei semiconduttori? Di fatto la risposta va ricercata, ancora una volta, nella scelta di concentrare e specializzarne la produzione in Asia, in una ristretta cerchia di Paesi.
I principali sono Cina, Corea del Sud e Taiwan, che gestiscono un affare da 500 miliardi di dollari, secondo Bloomberg, ma che oltre un certo livello di produzione non possono strutturalmente andare.
Qui entra in gioco il fattore game changer del momento, vale a dire la pandemia: un anno e mezzo di lockdown e smartworking sparpagliati su tutto il pianeta ha fatto lievitare a dismisura la richiesta di device mobili; dunque, ha provocato un’extra domanda di microchip, destinati a prodotti in gran parte prodotti negli stessi Paesi asiatici, quindi privilegiati nella fornitura.
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Lo stress indotto al sistema si è sommato alla guerra commerciale tra Cina e USA, che non ha facilitato l’arrivo di tale merce verso i Marchi automobilistici di casa nostra (e non solo).
Il risultato sembra non avere nemmeno una soluzione – non ‘a breve termine’, sembra proprio non averla, anche perché lo stesso silicio che serve per produrre i semiconduttori non è infinito. Ridimensionare i consumi sembra impossibile, cambiare la catena di fornitura operazione non certo immediata: un bel dilemma per gli aficionados del ‘sistema’.