La logistica tra corto circuito ambientalista ed economico: il libero scambio nel mirino?

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Esiste un filone di riflessione che serpeggia tra gli economisti e quanti si occupano di free trade, ossia la disciplina economica dominante dagli anni Novanta del secolo scorso, che si lega a doppio filo alle sorti della supply chain mondiale

Dal Covid in avanti il mondo non è più lo stesso: per la Supply Chain l’ultimo baluardo che può crollare è quello del libero scambio.

Certo, si tratta di una prospettiva fantascientifica, ma un ragionamento espresso sulle pagine del New York Times ha dato la stura ad una serie di reazioni che, almeno negli ambienti che conoscono da vicino Repubblicani e Democratici a stelle e strisce, evidentemente covavano da tempo sotto la cenere.

Il grande imputato sta, suo malgrado, diventando il Libero Scambio – meglio noto come Free Trade – in quanto reo, dopo un ventennio abbondante di apertura verso la Cina, di non aver avvicinato i due mondi diffondendo una classe media più vogliosa di democrazia a Pechino e, anzi, di avere affermato almeno due fenomeni negativi dal punto di vista occidentale.

Il primo è il rafforzamento di un’economia, quella cinese, che ha prosperato sui copyright di quella occidentale, la quale è però l’unica responsabile di una delocalizzazione basata sulla corsa alla fornitura a più buon mercato. Il secondo è l’implicito finanziamento ad un industria ‘sporca’, ecologicamente parlando, lontana dall’occhio e dal cuore del consumatore occidentale, ma oggi evidente per il suo impatto sul cambiamento climatico.

C’è dunque chi soffia sul vento del protezionismo, le cui conseguenze non è certo detto siano migliori.

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Logistica, attrice non protagonista (?)

C’è un elemento sullo sfondo sia del cambiamento climatico e della caccia alle sue cause, sia del cul de sac globale in cui la contrapposizione tra democrazie e regimi autoritari si è cacciata attraverso anche il libero scambio: la logistica.

La logistica è il braccio operativo – lo scheletro ed il sistema nervoso – attraverso il quale tutto è possibile nelle nostre economie e, di conseguenza, società. Dall’approvvigionamento dei supermercati, dunque dalla garanzia di avere sempre cibo a sufficienza per quasi tutti, al funzionamento di qualsiasi tipo di industria, tutto si basa sulla Supply Chain.

Proprio la logistica è però parte degli attori coinvolti nel processo di costante inquinamento a livello globale: non c’è vite, bullone, stoffa, prodotto finito o semilavorato che non abbia percorso almeno qualche chilometro su gomma, via mare o per aria, per non parlare dei generi alimentari. Dunque la logistica inquina e lo fa tanto più essa deve servire un sistema globale, che impone continui trasferimenti di merci da un capo all’altro del pianeta.

Da un lato, questo genera ricchezza: per chi produce, per chi trasporta, per chi assembla e vende dopo aver trovato forniture a prezzi incredibilmente bassi, produce ricchezza anche per chi compra, dato che l’alternativa artigianale o Km Zero normalmente ha prezzi meno concorrenziali.

Però, così facendo, la Supply Chain contribuisce a strangolare pian piano l’ambiente, vuoi per la lentezza degli adeguamenti infrastrutturali richiestile, vuoi per l’impossibilità di controllare una filiera che si disperde in chissà quante realtà locali che di norme di rispetto ambientale non hanno nemmeno mai sentito parlare.

 

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Una morsa che stritola la logistica

Decarbonizzare la logistica sta, dunque, iniziando ad essere legato anche ai percorsi che la catena di approvvigionamento compie ed alle reti che ha intessuto nei decenni: si tratta di quei legami che portano dritti alla delocalizzazione iniziata negli anni ’70 del Novecento, quando l’Occidente iniziò a rivolgersi al Secondo e Terzo mondo ingolosito da cotanta manodopera a costo irrisorio.

Certo, dare lavoro ed impiantare industrie doveva servire ad innalzare il livello di benessere della popolazione, a generare indotto, ad innescare un’economia locale altrimenti solo rurale ed asfittica, in altre parole, ad occidentalizzare le società riceventi. Piccolo problema, nessuno degli strateghi aziendali di allora (e nemmeno di quel 1999 in cui gli USA aprirono al libero scambio con la Cina) doveva avere un fine intuito sociologico: a russi, thailandesi, africani in genere e cinesi non solo non si sono spalancate le porte del ‘bengodi’, ma non è nemmeno poi troppo seriamente passato per la testa di cambiare i propri modelli societari.

Risultato: oggi che il mondo è in crisi ed in preda ad un evidente scontro tra ‘democrazie occidentali’ e ‘autoritarismi orientali’, o ‘democrazie illiberali’ come spesso amano ribattezzarsi, ci va di mezzo l’idea stessa di Libero Scambio, trascinando con sé, in prospettiva, la logistica come ancella.

 

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Tendenze protezionistiche e norme pro-ambiente

La Supply Chain, molto probabilmente, subirà una ristrutturazione profonda nei decenni a venire: non solo per questioni tecnologiche, ma soprattutto in merito a chi rivestirà i vari ruoli.

L’interpretazione più dura che percola dalle pagine del NYT lascia trasparire un futuro fatto di scambi chiusi tra blocchi ‘democratici’, prevalentemente occidentali, quando non addirittura un ritorno ad una sorta di autarchia, particolare tentazione dei più intransigenti quando si trovano a vivere in Paesi della scala degli Stati Uniti. 

Si tratterebbe della negazione di tutti i principi di crescita economica teorizzati dal Dopoguerra in avanti, in quanto nessun economista moderno vede nell’autarchia un volano economico – senza entrare nel merito di tutto il resto.

È però una tentazione, cui il reshoring, vale a dire il rientro di parte delle filiere produttive, rischia di offrire un involontario assist. Paradossalmente, come in una congiunzione astrale, i nuovi pacchetti normativi per l’abbassamento dei gas inquinanti emessi dall’industria e dal comparto dei trasporti, sia nella UE che negli USA, remano a favore di un accorciamento delle filiere, come di un sistema che incentivi l’acquisto di beni prodotti rispettando l’ambiente.

Qui, si apre un altro capitolo: l’industria che ha sede in Europa o negli USA è comunque sottoposta a restrizioni e parametri per contenerne l’inquinamento che altrove nel mondo è impossibile reperire. Quindi i suoi prodotti si possono definire meno inquinanti, ma sono anche costosi, senz’altro più della loro versione prodotta in nazioni che non hanno alcun controllo sui processi industriali: da qui la necessità di incentivarne il mercato.

 

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Che ruolo ha la logistica

La Supply Chain si trova di fatto nel bel mezzo di un campo da gioco sul quale si stanno svolgendo almeno due partite diverse, una sulle sorti del pianeta ed una sull’equilibrio mondiale tra superpotenze ed aspiranti tali.

Il modello attuale è prospero per la logistica, almeno dal suo stretto punto di vista, ma non più sostenibile nelle esatte modalità attuali né per l’ambiente, né su una scena che vede gli attori gettare pian piano la maschera e cooperare solo per meri interessi economici. Ciò che è sempre stato, si dirà: vero, scartando le ipocrisie, ma oggi è palese che la dipendenza dall’afflusso di transazioni economiche è finalizzata ad una guerra ibrida globale.

La logistica si trova proprio lì, strattonata da una parte e dall’altra, tra le mille illusioni di benessere del nostro occidente, abituato ad avere tutto e subito a basso costo, chi vorrebbe ribaltare i rapporti di forza tra Oriente ed Occidente del mondo e chi pensa che ricostruire le mura intorno alle città sia la miglior soluzione per continuare a vivere in una realtà immutata.

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