Conflitto in Ucraina: corsa alle scorte arma a doppio taglio per la Supply Chain

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La paura di nuove interruzioni della catena di approvvigionamento può portare ad una crescita indiscriminata della domanda

L’argomento dominante, anche nel management della Supply Chain, sono loro, le conseguenze del conflitto in Ucraina, soprattutto di fronte alla duplice prospettiva che esso mette innanzi ai nostri occhi.

Anche se la guerra dovesse terminare domani come tutti ci auguriamo, infatti, il Paese dell’Est Europa non sarebbe comunque in grado di riprendere le produzioni e dunque le esportazioni di quelle materie prime per le quali è leader mondiale.

Qualora il conflitto si protraesse nel tempo o, peggio, dovesse esserci un’ulteriore escalation militare con il coinvolgimento di altre nazioni, questo vuoto di forniture diverrebbe cronico e si estenderebbe.

Certo, fa impressione dover fare calcoli economici nel contesto di una guerra, ma è pur sempre vero che l’economia è essa stessa strumento bellico o di supporto alla solidità di un sistema per respingere un assalto destabilizzante.

La supply chain è di fronte all’ennesimo scenario complesso da interpretare, ancora una volta in senso psicoanalitico: si tratta infatti di fare fronte alla tentazione di cedere al panico e di valutare con lucidità le mosse da compiere.

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Psicanalisi della Supply Chain: la profezia che si auto-avvera

Ricorrendo all’espediente logico della ‘profezia che si auto-avvera’, concetto noto ai più e spiegabile come l’assunzione di un atteggiamento o di uno stato mentale che finiscono per provocare esattamente ciò che si teme, invece di evitarlo, si può introdurre il timore che gli analisti più lungimiranti intravedono nella situazione attuale.

Un po’ come durante le prime ondate di Covid-19, le aziende ed i distributori hanno la concreta (e ragionevole) paura che la catena di approvvigionamento vada in tilt e che le forniture si interrompano.

A peggiorare la situazione vi è che, mentre durante la pandemia le interruzioni erano evidentemente passeggere e riguardavano prevalentemente l’evasione degli ordini, adesso interessano la fonte primaria di alcune materie prime, con il dubbio di non avere alternative per rimpiazzarle.

La reazione iniziale può essere dominata da un senso di panico che, come vedremo, può portare ad una ‘corsa alle scorte’, controproducente.

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Cosa mancherà a causa della guerra in Ucraina

È la globalizzazione, baby: l’abusata citazione è purtroppo sempre più attuale e rende fin troppo bene l’idea da quando il sistema globale di produzione demoralizzata e di consegna just in time è entrato in crisi.

L’invasione russa dell’Ucraina, dal punto di vista economico e produttivo coinvolge una quantità di settori in tutto il mondo difficilmente immaginabile su due piedi: da Kiev e Mosca escono ogni anno il 30% delle esportazioni mondiali di grano, un quinto di quelle di mais e ben l’80% della produzione di olio di semi di girasole.

Un ammanco impareggiabile per l’industria agroalimentare, sia che nel settore dei prodotti rivolti agli umani, sia che si tratti di mangimi animali.

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Kiev è però fondamentale anche per l’industria hi-tech, perché rifornisce l’intero pianeta di gas neon, come la Federazione Russa fa con il palladio: entrambi sono materie alla base della produzione di microchip, la cui carenza va ad aggravare la già pesante crisi dei semiconduttori in atto da tutto il 2021.

Uno dei comparti maggiormente colpiti è quello automotive e senza distinzione di bandiera, se si considera il non trascurabile dettaglio che l’Ucraina aveva un altro primato industriale, adesso per forza di cose messo in stand-by, ossia la produzione di cablaggi, in particolare modo proprio destinati all’industria dell’auto.

In più, si aggira sempre lo spettro di un’interruzione delle forniture di gas: se il NordStream 2 non è mai entrato in funzione, i gasdotti che portano la materia energetica dalla Russia passano proprio attraverso il territorio ucraino; Mosca non ha interesse a chiudere i rubinetti, ma un inasprimento delle sanzioni potrebbe portare ad una riduzione delle importazioni da parte della UE, sebbene sia uno scenario molto difficile da attuare.

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È sbagliato fare scorte?

La grande questione sul piatto è proprio questa: fare scorta di tutto quanto possa venire a mancare colti dal timore di non poter evadere gli ordini e tantomeno cambiare fornitori è la mossa giusta?

È una reazione istintiva quella di correre al riparo facendo incetta di quanto occorre: durante la prima fase della pandemia le persone correvano a fare scorte di carta igienica prima dei lockdown – qualcuno ricorderà le immagini degli scaffali di supermercato vuoti, soprattutto in nord America – e lo stesso hanno fatto anche distributori e buona parte della GDO, spesso non riuscendo poi a venderla una volta passato il panico.

Oggi c’è chi acquista in quantità acciaio, temendo che il rincaro dell’energia blocchi del tutto le produzioni, c’è chi corre alla ricerca di cablaggi, chi ordina quanti più prodotti chimici riesca (anche i fertilizzanti sono tra le produzioni forti del paniere ucraino-russo e bielorusso).

Eppure gli analisti vedono questo comportamento come potenzialmente autodistruttivo per la Supply Chain ed il sistema economico in generale.

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Una domanda impazzita: l’effetto frusta

La corsa alle scorte si traduce in un picco di domanda ai fornitori: a quelli sotto embargo o minacciati di finirvi, prima che si chiudano definitivamente tutti i canali di comunicazione, ma anche a quelli minori, perché stimolino un incremento delle produzioni  – come hanno fatto gli USA con l’Arabia Saudita per il petrolio, incassando per altro un rifiuto che, di fatto, non solo nega la possibilità di compensare le esportazioni russe verso Occidente, ma determina anche un aumento dei prezzi della materia stessa.

Considerando anche di vedere soddisfatte le richieste per forniture extra, si tratta di una trappola che il sistema si crea da solo.

Il perché si spiega comprendendo che il problema non sta nell’ottenere quel determinato materiale, ma nella necessità improcrastinabile di cambiare metodo produttivo.

Intasare la Supply Chain di domanda ha infatti due effetti, ampiamente dimostrati dagli ultimi due anni di pandemia: fa lievitare i prezzi delle materie richieste e provoca colli di bottiglia per via dei volumi extra (non dimentichiamo le strozzature portate dal Covid e diventate nel frattempo croniche).

Dunque amplifica la sensazione che non vi sia possibilità di soddisfare la domanda, che riceve un ulteriore stimolo ad aumentare, riflettendosi di anello in anello, costruendo quell’effetto frusta che si abbatte sulla produzione come uno tsunami di richieste, a quel punto davvero impossibili da soddisfare.

 

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L’amara sorpresa delle scorte ‘da piazzare’

Innescato questo fenomeno, le aziende che hanno riempito – o che hanno fatto ordini tali da riempire nel prossimo futuro – i magazzini potrebbero trovarsi di fronte ad un’amara realtà.

Negli scorsi due anni si sono moltiplicati infatti i casi di scorte rimaste in stock: forniture pagate a peso d’oro nei momenti di maggior terrore psicologico della pandemia e destinate a non incontrare una reale domanda da parte dei consumatori.

Un invenduto che pesa sui bilanci ogni giorno in più che trascorre in magazzino e che, quand’anche viene venduta, non riesce a far rientrare l’azienda dell’investimento fatto per via del mutamento delle condizioni al contorno e del crollo dei prezzi.

I presupposti per l’identico scenario ci sono anche adesso, con il rischio di immobilizzare grandi quantità di capitale sotto forma di scorte difficili da vendere.

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Identificare gli anelli deboli, trovare alternative

Il punto di fondo è sempre il medesimo: come già durante la pandemia era risultato chiaro, la soluzione non è mai nel ricorrere all’accumulo.

Le risposte della Supply Chain vanno cercate nella sua ristrutturazione, abbandonando i modelli che, alla luce dell’ambiente estremamente vulnerabile, si dimostrano superati ed insostenibili.

Vanno anche indagate attraverso i singoli anelli della catena di approvvigionamento, identificando con obiettività quelli deboli o sostituibili, nonché ponendosi alcune fondamentali domande: è possibile trovare alternative ad una determinata fonte di energia? È possibile aumenta la produzione di una fornitura e da quale fonte? È possibile cambiare fornitore o mantenerne diversi in parallelo?

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