Rendere l’eCommerce sostenibile: la sfida dei resi

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Una parte è endemica ed inevitabile, una parte deriva dagli effetti collaterali dello shopping compulsivo. Parliamo dei resi, spina nel fianco del commercio elettronico

Il mondo della distribuzione deve molto all’eCommerce, la cui diffusione smisurata durante i lockdown del 2020 e del 2021 ha lasciato in eredità un mercato oltremodo florido.

Come qualsiasi cosa cresciuta troppo in fretta, il commercio elettronico ha però diverse idiosincrasie al suo interno – una su tutte: la gestione dei resi – che rischiano di minarne alle fondamenta la sostenibilità.

Dunque, attraverso la gestione dei resi passa il futuro stesso dell’eCommerce, che deve fare quadrare i conti, ma anche le emissioni di CO2, rimanendo accattivante ed appetibile per i clienti.

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Resi: il rovescio della medaglia

La politica del reso gratuito, diciamolo, mette subito a proprio agio il cliente. Nei panni del compratore, infatti, sapere che se un articolo acquistato online, quindi senza poterlo vedere, né provare, può essere restituito senza colpo ferire ben dispone verso l’acquisto stesso.

Questo è noto ai venditori, che non per caso hanno in buon numero adottato questa strategia. Come tutte le esperienze nuove, dopo un po’ di tempo si scoprono anche i lati meno positivi: per l’eCommerce e il mondo della distribuzione sul quale si regge è stato così per i resi, il cui volume rischia di compromettere la stabilità del sistema.

Non è un’iperbole: la logistica inversa, ossia quella della merce restituita, è la sfida di oggi.

 

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Boom di resi, perché?

Si dirà, comprando alla cieca è normale che una buona percentuale di acquirenti sia poi insoddisfatta. Eppure sappiamo tutti che i prodotti sono ben visibili e che molti – in Italia è una tendenza – provano in negozio e poi acquistano online.

Eppure, a livello globale i numeri sono davvero alti: gli Stati Uniti nel 2021 hanno visto restituire più del 21% degli ordini consegnati, il 3% in più del 2020, per un valore di 218 miliardi di dollari. Osservando il segmento fashion le percentuali fanno rabbrividire, perché in questo caso è il 61% degli acquisti online a tornare in magazzino; seguono i prodotti hi-tech, con il 25% di resi sul totale.

Per le aziende si tratta di un vero e proprio incubo: è vero infatti che l’eCommerce ha decuplicato le vendite e i fatturati, ma l’effetto collaterale dei resi rischia di assumere proporzioni ingestibili, sia economicamente che organizzativamente parlando.

Da tenere in considerazione è un fatto, che rende i resi scissi dalla normale quota di insoddisfazione presente nella clientela: si tratta dello shopping compulsivo.

 

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Il profilo del ‘professionista del reso’

Sono diverse le aziende dell’eCommerce che si sono chieste il perché di tanti resi e sono altrettante quelle che hanno iniziato ad avere dei sospetti su alcuni comportamenti. Marchi come Asos e Boohoo, leader del fashion online nel Regno Unito, hanno addirittura previsto dei cali nei profitti a causa del saldo tra fatturato e resi; dunque le aziende sono ben motivate a comprendere il fenomeno, che alcune ricerche eseguite sulla base dei big data e delle profilature dei clienti hanno iniziato a delineare.

È pertanto emerso che il 75% dei resi proviene da un nucleo di clienti ricorrenti, i cosiddetti ‘professionisti del reso’.

Si tratta di persone che acquistano compulsivamente e altrettanto repentinamente restituiscono. Alle spalle di questo comportamento a volte ci sono delle vere e proprie patologie, una sorta di ‘dipendenza da shopping’, ma anche comportamenti opportunistici incentivati dalla facilità di approccio al sistema.

Specie nella moda è noto che molti acquistino capi per utilizzarli in una singola occasione, dopodiché restituirli e continuare ad usare il credito per ricambiare il guardaroba, sempre a ‘tempo determinato’. Se vogliamo si tratta di una sorta di comportamento ‘parassitario’, che sfrutta il principio consumistico ed è invogliato proprio dal reso gratuito.

 

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Educare il cliente

Alla base di quanto detto vi è senz’altro una forma di diseducazione – o scarsa educazione in partenza – del cliente. Molto dei costi che il meccanismo dei resi innesca hanno infatti una ricaduta sociale ed ambientale, quand’anche le due fossero divisibili.

I resi hanno infatti un impatto molto forte sulla catena distributiva e generano una serie di operazioni – reimballaggio da parte del privato, prelievo da parte del fattorino, spedizione, scarico e conferimento a magazzino, verifica della merce, pulizia della stessa, imballaggio per la nuova vendita oppure conferimento diretto in discarica e distruzione – foriere di consumi, emissioni inquinanti e sprechi.

Sul fronte dell’impiego di risorse umane, si capisce bene quanto pesi un reso quando si confronta la sua elaborazione a magazzino contro quella di un prodotto nuovo: un operatore in un magazzino semiautomatizzato può processare fino a 30 articoli in un minuto, un reso da solo occupa un addetto per 10 minuti.

Dal punto di vista degli sprechi e dei mancati introiti, basti pensare che appena il 5% dei resi può essere reimmesso sul mercato, mentre il resto o viene liquidato a prezzo d’occasione o distrutto.

Per reintegrare queste perdite, alcune aziende hanno abbandonato la politica dei resi gratuiti, altre ricaricano i costi aggiuntivi sui prezzi delle merci, con aumenti anche nell’ordine del 20%.

 

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Le soluzioni

Posto che la bacchetta magica non esiste e che una percentuale di questi comportamenti perdureranno in quanto endemici, una strada è quella della comunicazione al fine di sensibilizzare i consumatori in merito all’impatto delle proprie azioni.

Altri, come Walmart, hanno acquisito startup tecnologiche che sviluppano applicazioni in grado di far provare virtualmente i prodotti di moda ai clienti, in modo da dare loro modo di capire se effettivamente li aggradi.

Tuttavia è chiaro che per la logistica e per il retail questa dei resi è La Sfida del presente, anche perché corrisponde al cambio di paradigma dello stesso commercio e della mentalità dei clienti.

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