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Shipping, la controversia delle mega-navi

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Dal 2000 la corsa ad armare portacontainer sempre più grandi ha portato il sistema dello shipping ad un punto di non ritorno

Dal 2020 la Supply Chain sembra fare ammenda per gli errori del passato: sotto la lente è finita subito la struttura della logistica globalizzata, adesso è il turno di scavare ulteriormente. È quanto sta accadendo allo shipping, il cui modello di funzionamento globale si espone a critiche per via dell’assetto assunto a partire dagli anni 2000.

La corsa degli armatori alle mega-navi, portacontainer che rappresentano la materializzazione del concetto di massimizzazione del profitto e dell’efficienza, si mostra oggi come cartina di tornasole di un sistema poco flessibile e votato all’oligopolio.

I problemi dello shipping legati ai tempi ed ai costi in stiva che affliggono le spedizioni e, a catena, tutta la logistica sono frutto delle stesse strategie della movimentazione via mare?

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Meganavi: delizia, ma anche croce

Due assunti di base vanno tenuti in considerazione per capire l’attuale assetto dello shipping mondiale: entro l’anno 2000 le compagnie di navigazione in grado di competere sul mercato globale sono rimaste meno della metà di quante ce ne fossero trent’anni prima, determinando una situazione sbilanciata a favore delle prime 10, che nei successivi vent’anni hanno assunto il controllo dell’80% del mercato marittimo globale.

Questo scenario, conseguenza diretta della globalizzazione degli scambi commerciali, ha portato, unitamente alla fiducia ceca in un sistema creduto ‘incrollabile’, ad esasperarne i termini con la ricerca di un profitto sempre maggiore.

Da lì, semplificando in modo estremo, nacque la corsa alle mega-navi, ossia a dotarsi di portacontainer in grado di trasportare da sole quello che in passato avrebbe impegnato due o tre vettori differenti.

Dai primi anni Ottanta ad oggi la capacità in stiva delle navi è aumentata di ben sei volte: l’ultima classe di mega-navi, datate 2022, si attesta sui 24.000 TEU.

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Portacontainer, perché aiutano la crisi

In un primo momento l’idea di concentrare il maggior numero possibile di container su meno navi possibili apparve brillante: meno viaggi per trasportare più merci, indubbiamente una prospettiva allettante, confermata dai risultati economici.

Tutto bene sinché non subentra il vero imprevisto, ossia il blocco della logistica dovuto ai lockdown. A questo punto il sistema deve fare improvvisamente i conti con un assetto che non prevede flessibilità: il mercato marittimo è concentrato nelle mani di pochi, molte tratte commerciali sono appannaggio di un solo grande armatore che opera in alleanza con i pari grado che gestiscono le altre, mentre le meganavi non possono permettersi di viaggiare scariche.

In realtà le avvisaglie dei limiti di questo sistema si erano già intraviste con la crisi finanziaria del 2008, che aveva fatto emergere i livelli di indebitamento raggiunti dagli armatori per la costruzione di questi giganti del mare.

Ciò aveva però ancor più favorito la concentrazione delle flotte alle dipendenze di quei pochi in posizione di reale oligopolio: infatti, l’invasione del mercato dello shipping da parte delle meganavi aveva portato al paradossale effetto di aumentare la capacità in stiva globale più della reale crescita della domanda di spazio, costringendo le compagnie a mantenere tariffe molto concorrenziali.

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2020, la rottura del sistema

Ad azzerare le certezze dello shipping è intervenuto il 2020 con la pandemia, che inizialmente ha avuto un impatto simile all’incagliamento della Evergreen (proprio una mega-portacontainer) nel canale di Suez.

L’assenza di una spartizione ‘democratica’ delle rotte e l’esigenza di far viaggiare a pieno carico navi di enormi capacità in stiva ha però presto ribaltato l’ottica del problema, rovesciandola sugli altri anelli della catena logistica: i ritardi dovuti ai singhiozzi pandemici sono stati di fatto amplificati dalla scelta di armatori e spedizionieri di concentrare ancor più le merci su poche rotte, sopprimendo molti collegamenti.

Il risultato è quello che oggi conosciamo tutti, fatto di tempistiche dilatate e rincari dei noli marittimi su livelli mai visti prima.

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Un effetto a catena

Ad incidere sui prezzi dei passaggi in stiva e, alla fine della catena, su quelli dei prodotti al consumo c’è un ulteriore costo occulto figlio proprio dell’impiego delle mega-navi.

Si tratta dell’aggiornamento delle infrastrutture che dovrebbero accogliere questi giganti, che, per navigare e soprattutto attraccare, necessitano di fondali costantemente dragati, banchine allargate, allacci potenziati, gru dimensionate appositamente: tutte caratteristiche che pochi scali portuali al mondo hanno.

La maggior parte dei porti ha bisogno di adeguarsi per non rimanere tagliato fuori dai traffici internazionali, ma naturalmente questo ha un costo. Ancora una volta per paradosso, questo costo è indotto dalle scelte delle compagnie di navigazione, che decidendo di ricorrere a navi così grandi per concentrare i trasporti costringe le autorità portuali ad adeguare i propri standard, senza però contribuire alle spese che ne derivano.

Dunque, tali costi si scaricano ancora a valle, sul resto della catena che giunge sino al consumatore finale.

 

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Meganavi, era finita?

Tuttavia, che le mega-navi siano di difficile sostenibilità paiono essersene accorti anche gli armatori. Gli ordini effettuati quest’anno per nuove portacontainer si rivolgono tutti ad una classe di capacità nettamente inferiore al passato, al massimo da 8.000 TEU.

Una tendenza in atto già dagli anni precedenti, dato che gli ordini in costruzione nei cantieri, il cui varo è previsto entro il 2025, vanno dai 12mila ai 17mila TEU.

Flotte più numerose ma più agili in virtù delle ridotte dimensioni comportano, in un mercato frammentato e liquido come quello odierno, costi inferiori e, soprattutto, la possibilità di ridisegnare le rotte con una flessibilità ben maggiore.

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