Movimentazione container, uno specchio dell’economia americana

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La ‘guerra dei container’ non è finita: con sfondo la lotta Cina-USA, i viaggi dei container (vuoti) inchiodano l’export statunitense

Dimmi quanti container hai e ti dirò chi sei: sembra un po’ questo il refrain degli articoli di analisi della stampa specializzata statunitense a proposito delle difficoltà croniche dei loro porti nazionali.

In particolare, dall’arrivo del Covid-19 in avanti, lo scalo marittimo più importante del Paese, Los Angeles, ha sofferto di continue congestioni che vengono prese ad esempio per giustificare l’andamento deludente delle esportazioni di prodotti Made in USA. 

A fare da indice del corto circuito di una serie di politiche del recente passato sono proprio i container movimentati, con particolare attenzione per quelli vuoti, assai ambiti in Asia e dai vettori marittimi, che spesso li riportano indietro senza aspettare che siano carichi di merci.

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Porti USA ancora nel caos

Il discorso non è valido per tutti allo stesso modo, ma il fulcro delle preoccupazioni dell’amministrazione Biden è che il principale dei terminal nazionali, Los Angeles, si sia a stento ripreso dal collasso incancrenitosi dopo i ripetuti lockdown, sia in terra statunitense, sia in terra cinese.

Los Angeles ha infatti patito in prima persona le vicende occorse al suo omologo cinese, il porto di Shanghai, ‘chiuso’ per Covid nella scorsa primavera: una volta sbloccatosi, esso ha riversato in Occidente una marea di navi container a pieno carico, facendo definitivamente saltare l’operatività di Los Angeles.

Lo scalo della baia californiana era per la verità già in crisi, anche perché, in una logica sistemica come quella della logistica, gli scioperi dei camionisti – vuoi perché no vax d’ispirazione trumpiana (ricordate la ‘marcia della libertà’ e l’assedio al premier canadese Trudeau?), vuoi perché limitati dalle norme anti contagio – hanno innescato un domino di ritardi mai del tutto smaltito.

Da Long Beach a New York/New Jersey, qualsiasi scalo ha un rapporto tra container pieni in entrata e vuoti in uscita migliore di Los Angeles.

 

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La rotta (e la lotta) Cina-USA

Guarda caso, i problemi materiali che affliggono Los Angeles paiono fare da cartina di tornasole alla guerra delle importazioni ed esportazioni tra Cina e USA.

Uno dei motivi per cui Biden ha istituito nel 2022 una Supply Chain Disruptions Task Force con tanto di inviati sul campo è che dietro alla movimentazione insufficiente delle merci negli scali si celerebbe una delle chiavi di lettura della guerra commerciale tra Washington e Beijing.

Come già scrivemmo in passato, pare infatti che le sanzioni a firma Trump sull’import cinese abbiano diversi effetti collaterali, primo fra tutti l’inefficacia: l’accordo commerciale Cina-USA del 2018 si è rivelato nel tempo uno slogan privo di effetti pratici, nel senso che Pechino ha tranquillamente disatteso tutte le quote a lei imposte senza pagarne minimante dazio. 

Al contrario, gli Stati Uniti si trovano ingolfati in una logistica che non regge il ritmo e non consente loro di esportare prodotti verso la Cina stessa, dove la classe media in crescita potrebbe rappresentare un ottimo mercato.

 

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Container vuoti

Lo specchio di quanto accaduto negli ultimi tre anni sono gli scambi di contenitori, merce assai preziosa per gli spedizionieri: si era già avuta, se ricordiamo, una crisi globale dei container vuoti nelle prime fasi della pandemia perché ‘razziati’ proprio dagli operatori asiatici.

Los Angeles ha a lungo importato container pieni, esportandone di vuoti: i vettori marittimi, adducendo la scusa – per altro vera – che nello scalo non fosse possibile fidarsi delle programmazioni per i sistematici ritardi, si sono affrettati a reimbarcare i contenitori svuotati per renderli il prima possibile disponibili in Asia, dalla quale ripartono sempre pieni e paganti.

Si è dunque instaurato nel tempo un circolo vizioso, che tende a trasbordare sempre più merci verso Occidente e a svuotare sempre meno le banchine dei porti americani.

 

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Il nodo delle infrastrutture

Certo, non sono solo i container la causa di tutto. Gli Stati Uniti, al di là dell’immagine che la nazione più potente al mondo da di sé, soffrono un certo ritardo nell’aggiornamento strutturale, come anche le autostrade e le ferrovie.

Gli USA, sembrerà strano, ma lamentano da anni carenze infrastrutturali e i porti sono sotto la lente per la loro obsolescenza, in alcuni casi.

Vi è poi anche una questione di costi delle merci e di tipi di lavorazioni, in quanto Washington importa prodotti semilavorati o finiti, ma esporta quasi solo materie grezze, avendo delocalizzato praticamente ogni industria.

Detto ciò, rimane una situazione da raddrizzare, in quanto l’export USA è calato di 30 punti percentuali negli ultimi tre anni, dopo che per 15 si era mantenuto costante o in leggera crescita.

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